di Antonio Lucio Giannone

Concludendo il suo editoriale, dal titolo La cospirazione provinciale, pubblicato sul numero 5-6 della rivista «L’esperienza poetica», da lui fondata e diretta dal 1954 al 1956, Vittorio Bodini, dopo aver affermato che «essa [scil. la rivista] mira in realtà a una nuova revisione di valori poetici e culturali, tale da ricostituire il filone d’una tradizione alla luce delle nuove esperienze»[1], così scriveva: «E intanto si riprovano le letture, si correggono i rapporti e le errate prospettive dei poeti più vicini nel tempo, e non può certo meravigliare che si sia cominciato da Quasimodo»[2].
In effetti, il poeta siciliano era stato, fin dall’inizio, uno dei principali punti di riferimento, una sorta di nume tutelare anzi, di questa rivista, che si proponeva di documentare, nel modo più aperto e ampio possibile, la tendenza al rinnovamento della poesia italiana, rifiutando l’alternativa tra ermetismo e neorealismo e indirizzandosi invece verso un moderato sperimentalismo, inteso, come chiarì lo stesso Bodini, nel senso di «saggiare, di provocare delicatamente la natura della nuova poesia, di indagarne e verificarne attentamente le ragioni, prima di convincerci e di cercar di convincere col rumore di averle trovate»[3].
Non a caso, nel primo numero, compariva un articolo del redattore, Luciano De Rosa, intitolato Quasimodo e la difficile strada del sentimento, nel quale si distinguevano varie fasi della poesia quasimodiana, che erano messe in rapporto al momento storico in cui si erano sviluppate. De Rosa infatti, dopo un primo periodo «autobiografico e impressionistico»[4], notava una graduale evoluzione dalle raccolte degli anni Trenta, caratterizzate dalla poetica della parola, «cioè dell’autonomia del mezzo espressivo come avvento dalla parola-res o parola-mito e crisi dei valori romantici del sentimento»[5], alle Nuove poesie e ai Lirici greci, in cui «si fa strada quella poesia diretta, espressione immediata dei sentimenti, che occuperà da sola il Quasimodo della guerra e del dopoguerra»[6]. Nelle raccolte postbelliche, poi, il poeta si apre alla nuova realtà storica e impiega «tutte le risorse in un canto largo, ispirato da una cosciente umiltà verso il genere umano tradito e offeso»[7], spingendosi di nuovo «nella polis, “operaio di sogni” in mezzo agli uomini»[8]. In quest’ultima fase, «cade, una dopo l’altra, ogni riserva, ogni reticenza in una decisione sempre più irrevocabile di confessione totale, di canto spiegato»[9]. Quella di De Rosa era una disamina equilibrata e serena, che mirava a rintracciare una continuità nell’evoluzione, non a vedere fratture nette, come si incominciava a fare in quegli anni, tra un “primo” e un “secondo” Quasimodo, né tanto meno a emettere condanne verso un periodo particolare della sua poesia[10].