di Ettore Catalano

Tre volte sole ricorre, nelle parole che possediamo di Luigi Pirandello, il nome di Otto Weininger e in una, la celebre lettera datata 8 aprile 1930 indirizzata a Marta Abba, la citazione si presenta subito sospetta, alonata di negativo, circondata da una eccessiva preoccupazione discriminante e infine respinta lontano da una accensione ascetico-platonica affidata alla “nobiltà” interpretativa dell’attrice milanese. Era questo, a ben vedere, come tenterò di argomentare, il segno decisivo dell’influenza che il libro pubblicato nel 1903 ebbe sull’elaborazione difensiva di quel “complesso di Parsifal”, come ho proposto più volte di definirlo nei miei studi pirandelliani, un processo che traduceva “l’orrenda notte di Como” nell’adorazione per l’intangibile “Beatrice” rappresentata per Luigi dalla sua Musa Marta. Tuttavia, appare difficile non ricordare, con Leonardo Sciascia dell’Alfabeto pirandelliano, che tutte le vite di chi aveva a che fare con Pirandello erano “vite di vittime di cui Pirandello era vittima”. Sotto l’apparente impegno di analizzare l’interpretazione artistica del personaggio di Fiamma nell’omonimo dramma di Hans Karl Müller fornita dalla celebre attrice tedesca Kathy Dorsch (presto la Abba avrebbe portato in scena il medesimo personaggio), il drammaturgo, nella lettera, trova modo di accennare ad un conflitto alla Weininger tra l’istinto materno e quello sessuale che la “nobiltà” della Abba avrebbe reso, appunto, “drammatico”, senza cadere in volgarità e sguaiataggine.