A proposito di “Neorealismo”: contro l’ “autoreferenzialità” (anche in Puglia)

Scrivendo il 23 gennaio 1947 a proposito del Sentiero calviniano, Cesare Pavese annota nella sua scheda editoriale, con la consueta e forse un po’ dimenticata acutezza: 

“È senza dubbio il primo racconto che a mio parere faccia poesia dell’esperienza partigiana, e ciò per virtù anzitutto del punto di vista- l’avventura del ragazzo”.

Nella recensione, pubblicata sull’edizione romana de “L’Unità” il 26 ottobre 1947, cogliendo persuasivamente il cuore rosso dell’operazione narrativa calviniana, lo stesso scrittore piemontese sottolineava  la qualità essenzialmente “espressiva” di una scrittura che si misurava con i fatti e le parole, senza cedere alla retorica dei fatti e senza ricadere in quello che oggi potremmo chiamare una trionfante “autoreferenzialità.”

Italo Calvino, a sua volta, ricostruendo nel 1964 le ragioni del Sentiero e riflettendo sulle motivazioni che lo porteranno in seguito molto lontano da quella opzione per il negativo e per rappresentazioni dai toni intensi ed esasperati, sottolineava che il libro era nato sì da una ”spavalda allegria” e da una voglia di storie da raccontare, ma il suo centro propulsivo stava, al là dell’imbarazzato oscillare tra registro saggistico e finzione narrativa ( circostanza che gli rimproverava Vittorini in una lettera del 15 gennaio 1947), “ non…tanto nella…volontà di documentare e informare, quanto in quella di esprimere”. E aggiungeva, citando proprio l’atmosfera neorealista, che il neorealismo non poteva essere ricordato come “ una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie…tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo”.

Un problema, dunque, di poetica, cui si richiamavano le nozioni di “anonimo narratore orale”, “la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria”, la scelta del punto di vista di scorcio, l’adozione di quegli occhi di bambino e di quell’ambiente di monelli e vagabondi da cui potesse scaturire quell’appuntamento con l’espressionismo “che la cultura letteraria e figurativa italiana aveva mancato nel Primo Dopoguerra”. E tutto ciò, si badi bene, per sostenere che “forse il vero nome per quella stagione italiana, più che neorealismo dovrebbe essere “neo-espressionismo”.

Del resto, quando allo stesso Calvino toccò commemorare Pavese, dieci anni dopo la sua scomparsa, l’accento, nel suo discorso milanese, cadde sullo “stile”, sulla costruzione di uno “stile” come senso profondo dell’operazione artistica pavesiana. E per “stile” Calvino intendevanon certo la sottolineatura di una autosufficienza in termini di gusto, ma “scelta d’un sistema di coordinate essenziali per esprimere il nostro rapporto col mondo”.

In tal modo, specificità della forma letteraria e sua ricaduta gnoseologica venivano a comporsi in una nozione di “stile” come epistemologia letteraria, come avventura congetturale.

Proprio sul piano di tale “autocostruzione” di una nuova identità formale deve essere considerata tutta l’importante pagina della nostra letteratura che sarebbe semplicistico ridurre ad una onnicomprensiva etichetta.

In un’altra occasione, ripensando al rapporto natura-storia nel romanzo novecentesco e riflettendo, in particolare, su Pasternàk e Pavese, tra il Dottor Zivago e La casa in collina, Calvino rilevava la sbigottita pietà per il sangue versato, nelle tragedie della guerra e della violenza nazifascista contro cui si era appena vinto, come la traccia ultima di una tradizione di umanesimo stoico così presente nella cultura occidentale.  Corrado, l’antieroe pavesiano, scopre che la natura non è più fuga  dalla storia,  ma un terreno su cui il sangue e la violenza rendono illusorio il tentativo di sfuggire alle proprie responsabilità “storiche” e non solo individuali. L’autobiografia di una nazione che nasceva in un paesaggio di orrore non poteva che condizionarne la crescita, la natura si faceva storia e quella confusa sensazione di estraneità, vergogna, senso di colpa e  tristezza passiva che percorre le pagine pavesiane forse altro non è  che il tentativo di dare un senso e una ragione “al sanguinoso cammino degli uomini”. Ancora una volta è la lucida coscienza calviniana a venirci in soccorso, ad aiutarci a capire citando il nome di Giaime Pintor: “La nostra generazione…è quella che si riconosce nell’esame e nel programma di Giaime Pintor: la nostra forza  non potrà essere sete di trascendenza, non dramma interiore…la nostra forza può essere solo la esperienza di questo dramma…”E un altro grande personaggio della nostra storia recente ( forse mai come oggi tanto remota da parere inverosimile), Piero Calamandrei, in una lettera a Cesare Pavese del14 agosto 1950 così scriveva a proposito de La casa in collina:

“Questa è grande arte e poesia vera: di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo, toccano sempre le ferite della loro società…la eterna pena dell’uomo…”.

Scorrendo la prefazione del 1964 al  Sentiero dei nidi di ragno, tra le tante osservazioni interessanti scorgiamo un sollecitante riferimento ai due testi, pavesiani e vittoriniani, già citati, con cui il Sentiero dialoga secondo una strategia intertestuale, abilmente celata, ma oggi tutta leggibile in storica e perspicua trasparenza. Non dunque i Malavoglia  di Verga( riferimento che per Calvino indicava una cesura, uno stacco, non certo una contiguità o continuità di linguaggio col verismo regionale e col naturalismo) e forse neppure il pavesiano Paesi tuoi  devono essere accostati a Conversazione in Sicilia: il vero triangolo nasconde i vertici de La casa in collina  e del Sentiero dei nidi di ragno. Così si spiega in modo convincente, attraverso il rapporto tra il testo pavesiano e quello calviniano, anche il fascino di un rapporto triangolare col testo vittoriniano degli astratti furori, episodio iniziale di quella lotta contro la violenza falsificante della storia che, dopo il disinganno fascista, condurrà lo scrittore siracusano prima al ruggito dell’iperbole , con Americana del 1942 e poi alle squillanti pagine del “Politecnico”, nelle quali il profetico disporsi di simboli e miti della conversazione siciliana viene piegato a testimoniare il primato della coscienza e della cultura contro le nascenti strumentalizzazioni della prassi politica.

Come si può notare, tre risposte differenti al medesimo problema. In tutte il serrato confronto fra cose e parole stava a testimoniare l’affanno produttivo con cui un’intera generazione, nata tra le pieghe di un regime reazionario, più abile e spietato di quanto non possa sembrare ai revisionisti di sempre, poteva affacciarsi, con fame di storie da raccontare ad un’Italia povera ma fiera della sua ritrovata libertà, ricca solo del sangue versato da centinaia di migliaia di giovani in tutta Europa e nel mondo.

Come capita oggi scorrendo le pagine calviniane del Sentiero, così, se rileggiamo oggi Conversazione in Sicilia, rimaniamo colpiti da quel folgorante incipit del romanzo, in cui Vittorini ci dice, con inascoltata chiarezza:

“Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto”.

L’argomento del romanzo non è rappresentato dagli astratti furori, ma dalla ricerca di una struttura formale sperimentale, capace di conferire trama di una ricerca di valori agli astratti furori, perché essi diventino nuovi doveri. Se scambiassimo quella fame di conoscenza che si incarna in una coscienza semplicemente con un procedimento formale, ebbene ci sfuggirebbe, a mio modo di vedere, la storica pregnanza di quel processo di formalizzazione. Anche per Vittorini, come già abbiamo visto per Pavese e per Calvino,  si tratta di un problema di poetica, la ricerca di una forma espressiva capace di colmare quella  fame di realtà che non pare saziarsi, a legger bene l’intera Conversazione vittoriniana, nel disporsi profetico di un itinerario simbolico, di una eucaristia formale.. Sappiamo che Conversazione in Sicilia  non rappresenta che l’inizio di una ricerca che troverà, come ho già detto, nel ruggito dell’iperbole la sua concretezza espressiva e insieme la sua ideologica astrattezza.

Cesare Pavese, in una intervista alla radio rilasciata nel 1950 (sarà Leone Piccioni a formulargli domande nelle quali l’accento sul neorealismo batte in modo risoluto) polemicamente affermerà che la parola “neorealismo” ha soprattutto “oggi un senso cinematografico” e che ricostruire la sua opera di scrittore “col neorealismo all’americana” è affermazione semplicistica. Parlando di sé in terza persona, lo scrittore piemontese dichiara che per circoscrivere le ragioni della sua scrittura occorre richiamare l’attività  di traduttore, la frequentazione della tradizione letteraria dei classici europei ( da Dante a Baudelaire),la forza e il sapore del contatto-confronto con la realtà contemporanea e le sue contraddizioni. Tradurre ha consentito a Pavese di giungere alla conoscenza diretta di modelli stilistici in parte inutilizzabili, in parte sollecitanti e fondanti. Da tale fascio di esperienze “difficilmente conciliabili” (come nota acutamente lo stesso Pavese) nascono opere come La casa in collina, in cui Pavese non si limita a “creare personaggi”, ma si spinge fino a costruire “favole intellettuali il cui tema è il ritmo di ciò che accade”, ”la trasfigurazione angosciosa della campagna e della vita quotidiana “.

Formule un po’ criptiche o troppo generali: toccherà all’amico più giovane, Calvino, cogliere l’esatto rovello da cui nascono le pagine  di quel romanzo pavesiano, “strette tra il rimorso di non aver combattuto e lo sforzo di essere sincero sulle ragioni del suo rifiuto”.

Certo in quel romanzo Pavese portava ad espressione una sorta di dolente autocritica di tutta una generazione di intellettuali che, pur non condividendo la violenza fascista, “visse dell’illusione, perennemente rinnovata, che fosse possibile scavarsi una nicchia e accucciarvisi, attendendo ai fatti propri”, come aveva scritto lo stesso Pavese nel 1945. Da ciò il gusto amaro dell’autoesclusione, il peccato originale e il privilegio formale che sottendono la favola  intellettuale di Corrado, il suo “stupore di essere vivi”, la coscienza d’aver vissuto una futile vacanza in un tempo di scelte e di sangue. Ecco perché l’antieroe pavesiano non può che contemplare tutti i caduti, anche quelli repubblichini e chiedersi “perché”: domanda non solo ideologica, ma etico-esistenziale e tale sua configurazione lacera l’apparenza documentaria del romanzo e lo consegna a territori della psiche più ampi e coinvolgenti, nei quali lo scrittore finirà col perdersi, nel silenzio micidiale delle parole.

Calvino conclude nel dicembre 1946 il suo Sentiero dei nidi di ragno e nella prefazione del 1964 non manca di notare, contro tutti i fastidiosi moralisti e contro i detrattori di Pavese, che “ per molti dei miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere…solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile”.

Ho intrecciato rapidamente qui le vicende di tre romanzi e di tre scrittori che certo non si possono ricondurre  a quella sorta di devozione documentaria e ossessione realistico-sociale che dominerà quantitativamente nel secondo dopoguerra. Aveva ragione Natalia Ginzburg a parlare, nel suo Lessico famigliare del 1963,  di una vendemmia di parole che avveniva con delizia e confusione di linguaggi, a patto di distinguere il vino buono da quello di più facile consumo.

In altre parole, in conclusione, il profetismo visionario di Vittorini, il punto di vista esibito da Calvino, il possente escatologismo di Pavese credo siano tra le testimonianze più forti di una volontà di rifondazione complessiva della forma letteraria che avrà pochi seguaci nella convulsa narrativa ”neorealista” di quegli anni postbellici. Sarà il cinema, come aveva intuito Pavese, a incarnare meglio, nel suo linguaggio, quel nevrotico bisogno di pulizia e di innocenza.

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