Meloni e il Manifesto di Ventotene ossia: come (non) si leggono i testi

Già la semplice registrazione delle pagine cui appartengono le citazioni dimostra che si tratta di estrapolazioni da contesti diversi e non consecutivi (anche quelle delle pagine 32-33). Esse cioè non si riferiscono ad un discorso continuo, ma ad affermazioni singole decontestualizzate. Ma la decontestualizzazione, come si sa, può travisare il senso delle affermazioni. Perciò, per dare ad esse il giusto senso, bisogna ricontestualizzarle. Ed è quello che proviamo a fare.

Anzitutto, il senso generale del Manifesto. Senza procedere ad analisi testuali impossibili da fare in un breve spazio, facciamo riferimento alla introduzione di Corrado Augias. Questi, dopo avere descritto le condizioni storiche generali (la guerra mondiale in corso e “la certezza che… sul suolo europeo si stava consumando una carneficina”, p. 5) e le condizioni ambientali (“il carcere a cielo aperto di Ventotene con altri esiliati antifascisti e alcuni delinquenti comuni…durante le ore d’aria delle quattro stradine dell’isola”, p. 5) in cui il testo fu prodotto, delinea quella che è l’idea centrale del Manifesto: “L’idea di fondo di Spinelli è che solo una organizzazione europea di tipo federale avrebbe potuto raggiungere il duplice scopo di evitare una nuova catastrofe e di dare all’Europa un peso economico e politico tale da renderla, a guerra finita, protagonista del quadro internazionale” (p. 6).

È su questo sfondo che il Manifesto va letto e che le sue singole affermazioni vanno valutate. Ed è quello che risulta dalle affermazioni esplicite degli estensori là dove chiamano il loro movimento, in caratteri tipograficamente rilevati, MOVIMENTO PER L’EUROPA LIBERA E UNITA (p. 39).

Come si sa, le riflessioni partono dalla constatazione che “la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes” (pp. 13-14). Da qui la necessità di superare la forma dei singoli stati e di prevedere “una federazione europea, preludio di una federazione mondiale (che), mentre poteva apparire utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e quasi a portata di mano” (p. 16). È questa prospettiva di ampio respiro che dà il tono all’intero scritto e lo riscatta da misere valutazioni contingenti.

L’accenno alla guerra in corso dà un altro parametro necessario per giudicare il testo. È la guerra in corso che dà senso al momento di “crisi rivoluzionaria” (p. 36) che giustifica alcune affermazioni che possono apparire problematiche. Il quadro è chiaro: la prossima sconfitta della Germania porterà un “breve intenso periodo di crisi generale (in cui gli stati giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose le parole nuove e saranno materia fusa, ardente, suscettibili di essere colate in forme nuove, capaci di accogliere la guida di uomini seriamente intenzionati)”, nel quale bisogna fare in modo che le forze conservatrici non prendano il sopravvento, riportando così l’Europa agli stati nazionali che sono stati la causa della sua attuale rovina. Da qui la necessità di una spinta federale che porti alla “definitiva abolizione dell’Europa in stati nazionali sovrani” (p. 36). Una prospettiva decisamente utopistica.

Come abbiamo detto, è in questo quadro che vanno valutate le singole affermazioni. Veniamo dunque a quelle utilizzate da Giorgia Meloni.

(1) “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio” (p. 41). Già questa formulazione non è una negazione tout-court della proprietà privata (ved. “dogmaticamente”), ma la sua regolamentazione (ved. “abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”) in rapporto alle esigenze sociali. Va ricordato, a questo proposito, che “la rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita” (p. 40). E per chiarire ulteriormente il pensiero, “il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per le forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne sieno vittime” (p. 40).

E sarebbe bastato scorrere un po’ più giù il testo per rendersi conto della reale portata dell’affermazione (si riportano solo i punti essenziali):

“a) Non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori”;…

b) Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi rivoluzionaria in modo egualitario…Pensiamo ad una riforma agraria che, passando la terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari;…

c) I giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita;…

d) Le potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità, con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto l’alloggio, il vestiario, col minimo conforto necessario per conservare il senso della dignità umana;…

e) La liberazione delle classi lavoratrici può avere luogo solo realizzando le condizioni dei punti precedenti…” (pp. 41-42).

Come si vede, un vasto programma sociale (e socialista), sui cui diversi punti si sono sviluppati ampi dibattiti nel dopoguerra.

(2) “Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente” (p. 32);

(3) “Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuar di passioni” (p. 33);

(4) “La metodologia democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria” (p. 33);

Le tre affermazioni vanno riferite al momento di “crisi rivoluzionaria” conseguenti alla fine della guerra. In quel momento le pratiche democratiche sono inefficaci perché i democratici “non rifuggono per principio alla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità…sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere solo ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie ecc.” (1). Le stesse premesse valgono per le affermazioni (2) e (3). La ragione di ciò sta nel fatto che bisogna impedire alle forze reazionarie di prendere il sopravvento perché “nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffate, si proclameranno amanti della libertà, della pace, del benessere generale, delle classi più povere….Se questo scopo venisse raggiunto, la reazione avrebbe vinto” (pp. 35-36).

(5) “Esso (il movimento rivoluzionario) attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentar le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova democrazia” (pp. 46-47).

Lo sfondo è ancora una volta lo stato di crisi rivoluzionaria post-bellica. Ma l’esito non è uno stato autoritario, ma, come  detto esplicitamente, “il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova democrazia”. Il principio informativo di questo processo è espresso nell’incipit del Manifesto: “La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio di libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita” (p. 23).

Come si vede, il contesto dà alle affermazioni da esso estrapolate un diverso significato. Ciò non significa che esse siano condivisibili in assoluto. Esse conservano la loro matrice ideologica che, come detto, è socialista. Esse possono essere criticate. Ma, prima devono essere lette correttamente e, se possibile, capite.

Comunque, si può dire che il Manifesto è un grande testo di teoria politica, che reca al suo interno (e non se ne è potuto dare conto nel breve riassunto proposto) numerosi spunti di riflessione, anche in rapporto a problematiche più o meno attuali. E quindi è stata una ottima iniziativa di Repubblica averlo riproposto al grande pubblico.

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