Il Salento delle leggende. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto II

Ci fu un tempo – e furono esattamente gli anni spaventosi tra il 1866 e il ’67, quando in Terra d’Otranto scoppiò una terribile epidemia di colera che mieté vittime a dismisura – che alla guida del Convento dei Cappuccini di Galatina (fondato tre secoli prima per volontà testamentaria di Niccolò Zimara) c’era un sant’uomo.

Tanto santo che il suo vero nome era Primo, ma egli stesso aveva imposto a tutti d’essere chiamato Ultimo perché, nella sua umiltà, si riteneva l’ultima creatura della terra. E ancora più santo – precisavano i molti fedeli che gli volevano bene – perché era giunto alla soglia dei cento anni e il Signore non l’aveva ancora chiamato a sé, nonostante non risparmiasse a quell’età veneranda le proprie limitate energie fisiche e mentali, intraprendendo viaggi frequenti anche fuori della città, e specialmente d’inverno, per portare conforto alle famiglie dei contadini più poveri, che vivevano solitari nelle campagne: un dovere al quale Padre Ultimo non aveva mai mancato, nella sua costante e straordinaria funzione di assistenza, carità e misericordia.

Vennero altri giorni, e altri ancora, e giunse anche il tempo che nessuno vide più il Padre Ultimo: né dentro il Convento né fuori, né in città né verso le masserie né altrove. Per quante ricerche fossero state iniziate anche nei luoghi più nascosti e sconosciuti del territorio, il suo corpo non fu più trovato.

Finché, un’anziana pia donna rivelò che una notte le era andato in sogno, confidandole che il colera aveva stravolto i suoi tratti somatici, rendendolo irriconoscibile, ma che per tutto il tempo dell’epidemia, allorché il Convento stesso fu adibito a lazzaretto, egli aveva assistito i malati fino all’ultimo, redimendoli dei propri peccati attraverso la confessione, e ora tornava anche lui alla casa del Padre.

Forse, a suo modo, è anche una leggenda la storia di uno dei massimi musicisti del Settecento napoletano: Pasquale Cafaro o Caffaro, detto anche Caffariello.

Egli nacque da civile famiglia in San Pietro in Galatina il giorno 8 febbraio 1715 (e non nel 1706 o 1708, come altrove sostenuto), giacché lo stesso Cafaro, giovane di talento straordinario – inizialmente avviato agli studi di Diritto – dichiarò di avere vent’anni, al momento del suo ingresso nel Conservatorio napoletano della Pietà dei Turchini il 23 dicembre 1735.

In quel luogo importantissimo, tanto più per un giovane di belle speranze, giuntovi dalla lontana Provincia d’Otranto, il suo protettore Marchese di Odierna, scorgendone il marcato talento musicale, gli aveva procurato la necessaria istruzione affidandolo al celebre Maestro Leonardo Leo. E dopo dieci anni d’intenso studio, il giovane galatino ebbe modo di esordire come compositore con l’oratorio Il figliuol prodigo ravveduto.

Caffaro fu tanto bravo che dopo pochi anni succedette proprio al suo Maestro Leo nella Direzione del Conservatorio, facendo poi il gran salto come Maestro della Cappella Reale di Napoli, istruendo nella musica il sovrano Ferdinando IV e la sua sposa, la regina Carolina, scrivendo più volte per il Teatro San Carlo, diventando infine fra i musicisti più eletti d’Europa.

È bene aggiungere che Cafaro – meritevole di una più approfondita attenzione e ricerca da noi posteri suoi concittadini – competé nell’insegnamento con Maestri illustrissimi, come il Maestro di Cappella alla Corte di Vienna Antonio Salieri, noto anche per i presunti contrasti che questi ebbe con Mozart.

Fra le opere maggiori di Cafaro (conservate manoscritte nei Conservatori di Napoli, Milano, Parigi, Bruxelles, e al British Museum di Londra) sono: Creso (del 1758, che ebbe un tale successo a Torino, che i torinesi avrebbero voluto trattenere a forza l’Autore nella loro città),  Ipermestra, Olimpiade (entrambe su libretto di Pietro Metastasio), Arianna e Teseo, e lo Stabat Mater (1785), tra le sue creazioni più ispirate, che poté (e può ancora oggi) sostenere il confronto con l’omonimo capolavoro del Pergolesi. Onore al merito.

Via Fedele Albanese 12. Interno sera. Anno 1950 o ‘51. Sul finire dell’inverno. Il tavolo ovale scintilla di sorrisi. Sono quelli di noi bambini e bambine. Almeno cinque o sei. Siamo circondati da tre donne di mezza età – zia Cetta, zia Triestina, Rosaria –, da due donne anziane – la zia Teresina e la zia Ninetta –, e da una minuta vecchietta più che ottuagenaria, piccola e immensa: nonna Anna. È lei che dirige il balletto dei cunti.

Potete entrare liberamente. La casa, come sempre, è aperta a tutti, e c’è ancora posto anche per voi. L’importante è non dare fastidio ai cani che dormono ai quattro angoli della stanza: Tom, Bebi, Fanny, Diana. Due bracchi maschi e due setter femmine. Domattina all’alba andranno a caccia ai Laghi Alimini con papà, zio Nino e zio Pippi. Lasciateli riposare.

Nonna Anna questa sera sorride: le sue figlie e nipoti la sollecitano a raccontare anche a noi più piccoli la sua personale “leggenda”, di quando andò in sposa al nostro avo, nonno Paolino (noto a Galatina come Patrunu Paulinu), ricco possidente terriero e produttore di vini.

Il nonno era rimasto vedovo in giovane età, con due figlioletti da crescere e, durante una visita presso vecchi compari di famiglia a Sogliano Cavour, aveva visto e subito scelto la bellissima nonna Anna, appena diciottenne, come nuova sposa e madre dei suoi figli futuri (furono altri undici: sei maschi e cinque femmine).

Per nonno Paolino fu un autentico colpo di fulmine. «Iu, invece – racconta la nonna Anna – nun abbìa tenutu mai nu zzitu, ed era mutu ingenua e cruda cruda». «Tantu ca – continua, convintamente – quandu ca se fôra preparate le nozze, e m’ìanu ccumpagnata a la Chiesia vestuta de biancu (ca me pensava ca se rripetia la cerimonia de la Prima Comunione e de la Cresima), e poi foe organizzata na crande festa a la campagna nòscia de lu Colamaria, dopu lu banchettu, all’ora de li saluti, videndu ca sta sse salutavanu puru cu la mamma e lu tata miu, me azài de la seggia, fici la riverenza a lu sposu, e lu ringraziai cu tuttu lu core ca m’avìa ‘mbitatu: “Grazzie a ‘ssignuria, patrunu Paulinu – li dissi –, pe’ la bellissima festa, e pe’ tutti ‘sti complimenti, ma mo’ devu turnare a casa mia cu la mamma e cu lu tata… Grazzie ancora, e arrivederci cu la bbona salute!”. E fatta n’addha riverenza, sta me ne scìa deveru a casa questa queta, tra le risate generali, comprese quiddhe de lu nonnu Paulinu vòsciu, pace a l’anima sua…».

Forse non andò esattamente così, ma la leggenda di famiglia così passa ancora da figli a nipoti a parenti e cumpari, quando alla nonna Anna viene il desiderio di tornare fra noi.

Questa voce è stata pubblicata in Culture, credenze e popoli, Noterellando... Costume e malcostume di Antonio Mele / Melanton e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *