di Carmine Luigi Ferraro

Prima di addentrarmi nei contenuti del testo (AA.VV. Significato del perdono. Religione, antropologia, diritto (a cura di Claudio Tugnoli e Michele Cozzio), Ed Tangram, Trieste 2023, pp. 263), desidero tracciare, anche se a grandi linee, il percorso del perdono nella storia culturale occidentale. Farò, obbligatoriamente, dei salti temporali, ma spero sarà chiaro il senso del mio discorso.
Iniziamo col dire che: vendetta, perdono, giustizia sono dei vocaboli, diremo meglio degli atteggiamenti da sempre legati fra loro. Sono atteggiamenti che contraddistinguono, in modo diverso, età storiche dell’uomo. In epoca ellenica, per esempio, la vendetta davanti ad un torto è un tema che riscuote grande fortuna. È impossibile, per esempio, riscontrare il perdono nella Letteratura antica; il perdono nasce solo con il cristianesimo e sostituisce la legge del taglione. Proveniente dal codice Hammurabi, tale legge fa anche parte della legge data da Dio ad Israele, tramite Mosè, citata anche da Gesù nel Discorso della Montagna (Matteo, 5, 38). Giudicare secondo questa norma significa punire il malfattore con una condanna corrispondente al crimine commesso:
“Frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente, lo stesso danno che ha fatto dev’essere fatto a lui” (Levitico, 24, 20).
Questa legge non autorizza a farsi giustizia da sé, ma permette ai giudici designati di infliggere pene giuste nei confronti di chi commette un crimine. Serve inoltre da deterrente nei confronti di chi ha intenzione di commettere un crimine (Deuteronomio, 19, 20). Se questa legge mosaica ci fa capire quanto sia importante la giustizia per Dio, non autorizza ad esercitare la giustizia in modo violento o crudele. La giustizia deve essere applicata a partire dall’analisi delle circostanze in cui si è verificato il crimine e secondo l’intenzionalità con cui viene commesso. La legge, di fatto, impedisce di infliggere pene eccessive, e confidare in Dio e nel sistema giuridico costituito per porre rimedio alle ingiustizie: