I resti di Babele 21. “Finibusterre” come chiave per descrivere il ‘900 salentino

Perché la sopravvivenza di Pietro è funzionale alla dimostrazione della fine del Capo. Pietro sopravvive in un mondo ridotto a maceria, irriconoscibile.
Di questo si fa metafora il paesaggio: l’uliveto come colonnato di un tempio apocalittico.
Composto tra il ‘29 e il ‘31, e pubblicato nel ‘36, romanzo salentino per definizione dell’autore, enciclopedia del Salento per definizione di Tommaso Fiore, Finibusterre cancella – definitivamente – ogni immagine mitica del Salento e vieta ogni possibilità di ricorrere a questa immagine. Dopo Finibusterre, chiunque intenda narrare il Salento può farlo solo partendo dal crollo di un immaginario culturale che avviene in questo romanzo.  Allora accade che, gradualmente, negli esiti della narrativa salentina letterariamente più maturi e significativi, il Salento non è altro che un luogo elaborato attraverso una combinazione di elementi dell’antropologia culturale con la tensione alla mitologizzazione della terra.
La scrittura narrativa sposta continuamente il Salento verso una sorta di zona franca, riparata dalle correnti degli eventi, non coinvolta dai mutamenti del secolo, immune dal contagio delle sue contraddizioni, estranea tanto allo sventolare delle bandiere delle grandi ideologie quanto dal loro avvoltolamento.
L’idea di Salento oscilla tra suggestioni del mito e interpretazioni della Storia, immaginario collettivo ed esperienza personale, modelli culturali e percorsi di scrittura, processi di costruzione di identità sociale e rispecchiamenti generazionali nelle forme di quella identità, nelle proiezioni di quelle forme, nella molteplicità di quelle fisionomie, tra la coscienza di una condizione di vivere in quella terra e una messa in scena di quella coscienza attraverso la narrazione letteraria.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Giovedì 13 marzo 2025]

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