I resti di Babele 21. “Finibusterre” come chiave per descrivere il ‘900 salentino

di Antonio Errico

La narrativa del Novecento salentino comincia nelle ultime pagine di Finibusterre di Luigi Corvaglia. Con un delirio. Con lo sgretolamento del mondo sotto gli occhi dei colerosi di un lazzaretto. Comincia con un’apocalisse, la furia di un castigo divino silenzioso e totale, con un corpo a corpo stremato e finale tra la vita e la morte, tra un passato concluso e un presente svuotato di ogni orizzonte e possibilità.
La narrativa del Novecento salentino comincia con la fine di un’idea di Salento, un’immagine, una tradizione, un tessuto valoriale, un sistema simbolico-culturale. Un mito. (Resta fondamentale per la lettura di questo romanzo, l’introduzione di Donato Valli all’edizione Congedo del 1981). Quando un servitore chiede a Pietro quale nome s’ha da mettere sul tumulo dell’uomo trovato riverso sui gradini del sagrato, Pietro risponde: Dòmine. E poi: il cantore che resuscitava il canto. E poi: del Capo morto.
Il Capo di Leuca: morto, dunque. Ma il Capo di Leuca muore definitivamente, essenzialmente, dopo poche righe, dentro gli occhi vorticanti di delirio dello stesso Pietro aggredito dal morbo, nel suo vomito, nella sua nausea, nei suoi dolori che espellono scene di passato mischiandole con le visioni del delirio, nello spasimo e nelle ombre di vivi e di morti che gli accerchiano la mente, nel torbido rimescolamento di memorie e allucinazioni, nella concreta sensazione di morte che lo attraversa e lo stravolge. Ma non lo vince.

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