Lo stato dell’Arte 2. Le condizioni di salute in cui versa la critica


Nuovo museo dell’opera del duomo, ricostruzione facciata arnolfiana di Santa Maria del Fiore, Cr. ph. Wikimedia Commons.

Lo scorso 23 novembre 2024, durante la serata dedicata alla pittrice “per passione” Lidia Scandelibeni (Bressanone, 1932), organizzata dall’Università Popolare Vallone e dal Circolo cittadino Athena di Galatina, sollevai l’attenzione del pubblico presente su una questione bollente, riguardante quelle opere d’arte che non ci trovano sempre tutti d’accordo: sia per le qualità – intrinseche ed estrinseche – del prodotto dell’ingegno creativo umano, sia per la collocazione più o meno opportuna scelta per esporlo. In occasione della presentazione del catalogo delle opere di “Lisca” (pseudonimo di Lidia Scandelibeni), edito da Il filo di Aracne, parlai, estraendo il succo del testo critico che vi compare tra le pagine, della critica dell’arte “costruttiva”, in contrapposizione alla critica dell’arte “distruttiva” e – alla tanto di moda oggi – critica “politically correct”.

La seconda, decisamente in voga in passato, particolarmente utilizzata sia dai regimi totalitari che dai pittori travestiti da intellettuali, lasciò il posto al terzo modello: quello del “tutto è bello e tutto è buono”, fino al vieppiù abusato tutto è “significativo”, aggettivo che costella ormai ogni testo critico e recensione di ultima generazione. Ma con quali risultati? Con l’effetto di non condurre in alcun luogo, di non sapere più veramente quale sia la strada da percorrere; ma soprattutto con la totale confusione dei ruoli, con l’incapacità tipica del bambino frustrato che non accetta più alcuna critica, anche quella oggettiva. In questa condizione limite, ecco che dovrebbe intervenire, in soccorso dei tempi che viviamo, il primo modello proposto, ossia una “critica dell’arte costruttiva”, che sappia mettere in evidenza punti di forza e aree di miglioramento, che non si barrichi dietro l’aridità del “tutto è brutto” o all’ombra rinfrescante del “tutto è bello”.

L’arte, lo abbiamo capito, è il segnale dei tempi che cambiano. Nel momento stesso in cui viene concepita, nel lungo periodo di gestazione e in quello necessario per portarla a compimento, ha una sua identità e come tale va trattata, cioè con il rispetto che merita ogni fenomeno condotto all’esistenza. L’artista, dal suo canto, deve accettare sempre le critiche che piovono, tanto quando sono motivate da osservazioni oggettive, quanto da mere opinioni soggettive (a patto che l’autore le segnali sempre con forza): in fondo, con questi chiari di luna, l’importante e che se ne parli. La critica, infatti, in un senso o nell’altro, serve per sollevare l’attenzione del pubblico, a patto di avere toni pacati e rispettosi dell’agire di ognuno.


Emanuele Giannelli, Korf 17, Cr. ph. Fondazione Alfredo Catarsini 1899.

È vero, i due giganti che guardano “il cielo sopra Firenze”, muniti di visori 3D, probabilmente cozzano vistosamente se messi a confronto con il Duomo e il Campanile di Giotto, ma la dicono lunga sul futuro dell’umanità e sulla capacità dei nostri figli di guardare la realtà senza il filtro della tecnologia – in questo caso da play station –, come del resto fu preannunciato dal film Avatar di James Cameron, uscito nelle sale cinematografiche qualche anno addietro (2009). Ma l’arte ha l’obbligo di comunicare con noi, dirci da dove veniamo (Duomo di Firenze) e dove stiamo andando (giganti di Giannelli e insegne luminose di Lodola). Questi due artisti, al di là della Batracomiomachia innescata in questi giorni, lo stanno facendo: piaccia o non piaccia poco conta, ognuno è libero di criticare così come ognuno è libero di produrre arte, sempre però con un approccio costruttivo; anche quando, dietro all’organizzazione di una mostra, si possa nascondere il fantasma dell’amichettismo, che in questo Paese tutti sono pronti ad additare agli altri, salvo poi respirarne a pieni polmoni quando l’aria inizia a girare dalla propria parte.

Purtroppo, in questa vicenda è doveroso dissentire con tutti, sia con l’autore dell’articolo che con l’ufficio stampa della mostra fiorentina, reo di avere risposto alla critica in sedi poco ortodosse (social media) e con toni che poco si addicono ai ruoli di ognuno. Non bisogna mai rispondere alla critica con minacce e insulti, ma non è nemmeno lecito criticare l’ingegno umano quando produce arte, anche se in quel preciso momento storico la critica non la ritenga tale: è arte, necessario ripeterlo, «qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva».


Emanuele Giannelli, The Watcher, Cr. ph. Fondazione Alfredo Catarsini 1899.

Forse per l’opera The Watcher, vicino la Basilica di San Lorenzo, e i due «dioscuri» di Piazza Duomo, Korf 17, è solo una questione di anni, forse i tempi non sono ancora maturi per comprenderle pienamente. Forse stiamo aspettando la valanga di immagini di arte surrogata generate dall’Intelligenza Artificiale, per capire davvero il valore artistico di quello che stiamo vedendo in questi giorni a Firenze …e, dissentendo anche con gli organizzatori (curatori sembrerebbe non ce ne siano), non bisogna cedere alle critiche chiudendo la mostra in anticipo, come si è letto su altri articoli pubblicati in questi giorni, ma rispettare il pubblico e il programma espositivo: per le mostre, qualunque sia il parere di ognuno, si accettano solo proroghe.

Personalmente non sempre capisco l’arte contemporanea, spesso non mi piace; amo conservare, custodire, quel che ci hanno lasciato i nostri nonni, i nostri avi. Non riesco a trovare il bello nei colori schizzati sulla tela, non amo le elucubrazioni dell’arte concettuale e dell’astrattismo fine a sé stesso. Ma se l’arte, come fu al tempo di Michelangelo e Raffaello, ha il compito di comunicare i tempi che cambiano, se è lo specchio della società civile contemporanea, se ha un valore sociale assoluto, allora la mostra Il cielo sopra Firenze di Giannelli e Lodola sta svolgendo bene il suo compito: ci sta mantenendo vivi. Sta parlando alle generazioni future, proprio come seppe fare Caravaggio – sollevando anch’egli grosse polemiche – più di quattro secoli addietro.

Concludendo, sebbene si possa pensare (ed è stato fatto) che piazza Duomo a Firenze non sia il luogo adatto per esporre questo genere di arte contemporanea, si deve ricordare a tutti che la facciata del Duomo è in stile Neogotico, formalmente lontanissima dall’idea originale incompiuta di Arnolfo di Cambio. Facciata, quella che vediamo, realizzata nella seconda metà dell’Ottocento (1883), ben 450 anni dopo la conclusione dei lavori della Cupola del Brunelleschi (1436). Saremmo in grado, noi, in questo secolo, pur nel rispetto degli stili e della manualità, di accettare senza criticarlo un simile intervento architettonico su un monumento di quattro secoli fa? Dietro quale vessillo dell’estetica ci nasconderemmo? Quali dure critiche rivolgeremmo a Ministeri, Enti locali e artisti, artefici del “disastroso” intervento? Gli stessi che furono rivolti a chi indisse nel XIX secolo i concorsi per il rifacimento della facciata di Santa Maria del Fiore? Oggi, ai visitatori, il Duomo di Firenze piace così, con quel suo aspetto che nulla ha a che vedere con il progetto originale di epoca medievale.

Collegamenti ipertesto/note fine testo:

Il campo di battaglia dell’arte pubblica: chi decide?

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