di Antonio Devicienti
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L’unico film sceneggiato da Samuel Beckett è del 1964, si chiama Film e ha come attore protagonista Buster Keaton per la regia di Alan Schneider, fotografia di Boris Kaufman. È un cortometraggio di 22 minuti sul tema della percezione: partendo dall’affermazione di Berkeley esse est percipi Beckett scrive una sceneggiatura in base alla quale un uomo, inquadrato sempre di spalle, cerca di sfuggire lo sguardo altrui con il fine di riuscire a svanire nel momento in cui non venisse più, appunto, percepito: nella sceneggiatura lo sguardo che lo segue da distanza ravvicinata e talvolta ravvicinatissima (esso coincide con quello della cinepresa) è indicato con E (Eye – una pupilla con il regolare sbattere della palpebra viene inquadrata in primo piano nei primi secondi della pellicola), l’uomo con O (Object). Questa fuga dallo sguardo altrui, iniziata con angosciosa foga in istrada, si conclude nell’appartamento dell’uomo che, sottrattosi anche allo sguardo dei suoi animali domestici, di uno specchio, di una divinità riprodotta in una foto sulla parete e che rappresenta Dio, di uno specchio, di una finestra, distrutte tutte le fotografie relative al proprio passato, si assopisce in apparenza nel non-più-essere, per ridestarsi all’improvviso e scoprire, con sommo orrore, che mai riuscirà, invece, a sfuggire a uno sguardo ben preciso: il proprio: ché, nell’unica inquadratura che ne riprende il volto, si rende evidente che lo sguardo che l’ha sempre inseguito era il suo, ineludibile.