Noterellando… Costume e malcostume 32. Casa mia. Elogio del provincialismo

È accaduto un po’ di anni fa, in una certa occasione, che mi sia trovato a non riconoscere quasi più un mio vecchio compagno di giochi, completamente ‘milanesizzato’, il quale, con malcelata alterigia, in una cena a casa di comuni amici, d’estate, nella zona di Santa Maria al Bagno, aveva preso a trattarci con una cert’aria di scostante distacco. Tanto che, guidato da un senso coerente, semplice, e anche un po’ ironico, degli eventi, l’ho perfino ‘maltrattato’, in un improvvisato e divertente battibecco dialettico. Con l’effetto – vivaddio! – di farlo (per un po’, almeno…) rinsavire da quella specie di stregonesco torpore che gli aveva stravolto l’antica naturalezza e freschezza di amico gioviale, essendosi evidentemente insinuato in lui un certo ‘rigetto’, e facendolo comportare peggio del peggior ‘provinciale’. Di quelli, cioè, che – come recitano (improvvidamente) i nostri dizionari – hanno una “mentalità e atteggiamento caratterizzati da conformismo, arretratezza e limitatezza culturale, con mediocrità di gusto e di giudizio”, e simili autentiche cretinerie.

Mi oppongo con tutto il mio essere a un simile concetto, che è innanzitutto arcaico oltre che eticamente e culturalmente inesatto, non essendo peraltro applicabile tout-court a tutte le persone che vivono in provincia.

Di solito, il ‘provinciale’ è più riflessivo, e possiede l’ineguagliabile capacità di osservare – criticamente, e con innato e squisito senso dell’humour – il mondo che lo circonda. Soprattutto l’uomo. Le persone. E i sentimenti che intorno alle persone ruotano, in una ‘coreografia’ di confrontodiretto e immediato, e di massima condivisione e integrazione esistenziale.

Pur nella sua umile (o in apparenza umile) condizione sociale, il provincialismo – che nell’evoluzione tecnologica di oggi è raramente “chiuso, limitato, immaturo o senza grandi orizzonti” come becera retorica vorrebbe –, spesso rappresenta, al contrario, una fonte preziosa di sapere, di idee, di contributi artistici e culturali, di vivaci fermenti sociali.

Qualche anno fa, in un’intervista che un po’ scorreva anche intorno alla mia più che cinquantennale attività artistica – sviluppata prima a Milano, poi a Roma, dove risiedo da molti lustri, ma anche in ambiti internazionali (scusandomi per l’autocitazione, che serve solo a supporto e conforto delle argomentazioni di cui trattasi) –, un giornalista e storico dell’arte si meravigliava che io avessi dichiarato di sentirmi ancora, e orgogliosamente, ‘provinciale’. Dove, per provinciale – precisavo –, al contrario di sedimentate e improprie convinzioni, deve intendersi tutta la vasta ricchezza e positività del termine, che somma i molti pregi storici, etici, tradizionali e culturali del ‘piccolo luogo’ ad alcune ‘visioni’ lungimiranti, e di natura più prettamente metropolitana o universale.

Analogamente all’episodio del mio amico ‘milanesizzato’, mio padre don Pietro Mele (come lo conoscevano e chiamavano rispettosamente e affettuosamente tutti), raffinato maestro d’ironia, portava ad esempio l’aneddoto del figlio di un contadino, che fu chiamato alle armi in servizio di leva, presso una lontana caserma del Nord. Costui partì, e dopo parecchi mesi, o forse un anno e più, tornò a casa in licenza. In tutto quel tempo, il giovane si era molto civilizzato: aveva scoperto l’acqua corrente, la pulizia quotidiana, il vestire a modo, le buone maniere, e il parlar forbito (o quasi).

Sicché, quando rifece capolino nelle patrie e allora poverissime terre, fra i vecchi contadini del paesello, umili e analfabeti come suo padre, lui (convinto d’essere ormai svezzato e ripulito di tutto punto) si sentiva decisamente ‘superiore’. Tanto da guardare tutti dall’alto in basso, fino al punto che, appena entrato in casa, salutando la madre, i fratelli e le sorelle, e vedendo un’altra persona, contorta dal freddo e accovacciata accanto al focolare, chiese arrogantemente, in un’approssimativa lingua italiana: «Chi è quel troncone di sotta il focaio?»… Non aveva più riconosciuto lu tata, suo padre!

*   *   *

Delle mie molte primavere ho trascorso la maggior parte soprattutto a Roma e, periodicamente, in altre grandi città metropolitane. Ma Galatina e il Salento sono e restano “il mio paese”, casa mia. Che amo a prescindere, come direbbe il mitico Totò.

Un legame e richiamo civile-culturale, che non è soltanto, né banalmente, nostalgia. È il riconoscimento sincero della ‘bella provincia’ (com’è stata, ed è ancora, anche quella di Arezzo o Perugia o Tolentino, o Montelupone e Macerata, dove spiego ancora le mie ali). È la provincia ‘viva’, del rapporto umano, costante, emotivo, sanguigno, fatto d’incontri leali, pur senza disconoscerne malesseri o malumori, e più di qualche contraddizione.

In città non ci si parla mai o quasi. La gente si attraversa in silenzio. Muoversi in auto è diventato quasi impossibile. Viaggiare in metro è spostarsi da una solitudine a un’altra. I volti non sono persone. Spesso non hanno luce né anima. Nel nostro pur bellissimo condominio, da trent’anni e più, ci salutiamo con un frettoloso e annoiato cenno del capo – a volte senza neanche quello –, accompagnato da una specie di grugnito, e comunque dandoci del ‘lei’. Forse per rispetto. Più probabilmente per ipocrisia.

Certo, a Roma come a Milano, e nelle grandi città del mondo, ci sono i musei, i parchi, i teatri, i grandi eventi d’arte o di sport, le imperdibili partite di calcio nello stadio gremito, i raduni e le manifestazioni con folle oceaniche. Ma bisogna essere costantemente pronti, attivi, forti, capaci, possedere energie e risorse molteplici.

E, infine, c’è da considerare il tempo. Il preziosissimo tempo, che in città non hai quasi mai. Ma che nella ‘bella provincia’ – talora perfino pigra – scorre con i suoi giusti ritmi, e puoi goderlo in abbondanza.

E puoi donarlo perfino agli altri. Spesso e volentieri con un sorriso.

Che è la distanza più breve tra due persone.

[“Il Galatino” XLIX n. 9 del 13 maggio 2016, p. 3]

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