L’operazione di Franco è straordinariamente efficace perché si vive l’atmosfera della crisi del Psi e di Craxi in particolare come una sorta di trasferimento nel tempo. L’autore ha saputo cogliere le tinte e i toni cupi di quei mesi fino al farsi buio completo. Ne esce un quadro impietoso. Craxi colto in un farsi altro da sé come in una vicenda ovidiana, dell’Ovidio delle Metamorfosi, scolorendosi, rimpicciolendosi, annullandosi, trasformandosi in un morto e sepolto quando ancora mancavano cinque anni alla morte biologica, mentre si dibatteva e contorceva per fermare quel processo. Da personaggio forte, sfrontato, arrogante, sicuro di sé da affrontare il suo nemico Di Pietro e uscirne anche ingigantito dal confronto in una sorta di larva che però conservava tutta la sua alterigia, quasi la sua incredulità fino a vedersi ridotto ad un povero malato, neppure creduto nella sua patria. La sua corte di nani, ballerine, giovani rampanti e vecchie glorie alla fine si era ridotta al solo Luca Josi, il segretario nazionale dei giovani socialisti, all’epoca ventottenne, che fu per l’ultimo Craxi tutto: compagno, confidente, tramite. Un apostolo lo chiama l’autore, a cui dedica un intero capitolo, in cui non può non tradire tutta la sua simpatia.
Craxi si tormentava all’idea che tutto di lui fosse dimenticato, annegato in una mala storia che non respingeva ma riportava alle sue più giuste dimensioni. Non si buttavano venti anni di storia del partito socialista, quattro di governo della Repubblica. Lo diceva, lo urlava quasi, ma le sue parole si perdevano sulla sabbia della spiaggia tunisina.
In qualche modo, pur con molte riserve e distinguo, un certo revisionismo oggi tende a riconoscere a Craxi quel che era di Craxi. Le parole di Mattarella nel ricordarne l’anniversario non sono state di circostanza, ma hanno voluto dire che quel fenomeno che si abbatté sull’Italia in quegli anni ha detto qualcosa di assai più importante di una storia di corrotti e di ladri. Ha ricordato la rilevanza dello statista Craxi, abile e capace di districarsi con successo anche nei momenti più complicati; ne ha ricordato la politica estera e il suo tentativo di modernizzare il Paese. Riconoscimenti a cui lo stesso Craxi ambiva, quando chiedeva di essere giudicato non per i soldi, peraltro mai trovati, che lo rendevano simile agli altri, ai democristiani e ai comunisti, ma per quello che lui aveva fatto, per come avrebbe voluto trasformare il Paese.
La bravura dell’autore di questo libro, che quando fu scritto sembrava anche voler dare ironicamente delle risposte alle ragioni di Craxi, offre l’opportunità di riflettere sulle vicende della vita, se mai ce ne fosse bisogno. Craxi non perse una guerra come Mussolini, non finì a testa in giù, ma il piazzale Loreto non fu meno tragico a considerare come in politica, che si sbagli in buona fede o che si pecchi deliberatamente, si finisce sempre per pagare prima o poi un fio mille volte più esteso e più grave. I suoi sodali in politica, gli Andreotti e i Forlani e i tanti altri, non furono meno ladri di lui, a voler esemplificare, ma essi tacquero e si nascosero e non osarono farsi ragione. Bene vixit qui bene latuit (sempre Ovidio). Se Craxi avesse voluto distinguersi avrebbe potuto farlo con la correttezza dei suoi comportamenti e con un po’ di cenere sulla testa. Invece lui volle dimostrare fino all’ultimo che anche nella corruzione e nel maneggio dei soldi, ché di questo si trattava, era stato il più bravo, fino ad accarezzare l’idea di legalizzare le tangenti come normali sovvenzionamenti dei partiti.