Postfazione a “Gran Varietà” di Paolo Vincenti: omaggio al potere della parola e alla sua capacità di in-cantare

Questo è un libro per persone affette dal morbo della curiosità che penetra, come fosse un’idea guida, nelle pagine avvolgendo razionalmente ed emotivamente chi legge. In fondo cos’è la curiosità? È quella motivazione cognitiva che “spinge i creativi a comporre le proprie opere, si manifesta come ispirazione, fervore, uzzolo, ghiribizzo, sfizio, […] muove i ricercatori e gli esploratori, spinge i naviganti a mettersi in viaggio”. E riprendendo l’immagine di Ulisse, «l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto» (Inferno, XXVI, 98), si affaccia quella curiosità che rende l’uomo diverso dalle bestie: «considerate la vostra semenza/: fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza»(Inferno, XXVI,118-120). In Simulacri scrissi che la curiosità, è un demone che «eccita la sperimentazione intellettuale e allontana dall’inquinamento culturale del consueto per fuggire dalla serialità del quotidiano e dalla norma»[1].

Il libro leggero (florealia, stromata o livre de chevet, come lo definisce il suo autore), composto da una serie di piccoli saggi altalenanti fra il sapere antropologico e sociologico, storico e sociale, letterario e musicale, gastronomico e massmediale, è appunto un “Gran Varietà”, così come recita il titolo. È un viaggio intellettuale che rende manifeste tutte le facce del proteiforme Paolo Vincenti, il quale ha fornicato con le diverse aree del sapere, divertendosi e facendoci divertire. È ancora una citazione di un programma televisivo “Il Cappello sulle Ventitrè”, trasmesso da Rai 2 dal gennaio 1983 a settembre 1986 nel palinsesto delle trasmissioni di seconda serata del sabato a fare da titolo all’introduzione.

I piccolo saggi, “quasi tutti figli di momenti alati di brio e ilarità”, sono occhiate sul tempo altro e sul nostro tempo, ritratti di tendenze, gusti, e interessi, frutto di una memoria erudita di chiara matrice libresca e di letture attinte alla contemporaneità. Il libro, che riprende ambiti di ricerca di cui l’Autore si è negli anni occupato, può essere letto preferendo ciò che desta l’interesse personale, senza che questo faccia perdere il filo della narrazione, che facilmente si ritrova.  Le peregrinazioni fra passato e presente sono la spia che il protagonista indiscusso di questi piccoli saggi è la necessità di comunicare. Così, nel tempo riservato alla lettura di vecchie e nuove narrazioni, si apre un varco verso una dimensione altra: lo spazio dell’anima. Un tempo senza tempo che si dilata o si ferma, procede in avanti o guarda indietro; un tempo che può somigliare a un istante o incontrarsi con l’eternità. In questo momento storico iper-connesso, l’orecchio è sordo ai richiami dell’anima e sappiamo quanto le storie siano terapeutiche, cosa ben nota agli antichi cantastorie.

Kafka nella lettera a Oskar Pollak affermava che si dovrebbero leggere solo quei libri che “mordono e pungono” e che abbiano sul lettore l’effetto di una disgrazia che fa male, come per esempio la morte di qualcuno al quale eravamo legati; i libri dovrebbero essere capaci di rompere quel blocco di ghiaccio che ognuno di noi ha e chissà che questo non sia stato il pungolo che ha mosso la stesura di Gran Varietà.

                                                                                                            


[1] Catalogo della mostra di Uccio Biondi del 2003, a cura di Massimo Guastella, presso Cantieri Teatrali Koreja di Lecce

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