Taccuino di traduzioni 18. Il tempo di Macondo (da Gabriel García Márquez, Cien años de soledad)

di Antonio Devicienti


Particolare dalla versione illustrata da Luisa Rivera di “Cent’anni di solitudine”, 2017.

Muchos años después, frente al pelotón de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendía había de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevó a conocer el hielo. Macondo era entonces una aldea de veinte casas de barro y cañabrava construidas a la orilla de un río de aguas diáfanas que se precipitaban por un lecho de piedras pulidas, blancas y enormes como huevos prehistóricos. El mundo era tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre, y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo. Todos los años, por el mes de marzo, una familia de gitanos desarrapados plantaba su carpa cerca de la aldea, y con un grande alboroto de pitos y timbales daban a conocer los nuevos inventos. Primero llevaron el imán.

Remotissima sera

quando conobbe il ghiaccio –

Macondo venti case

di fango e bambù

Macondo limpido impetuoso fiume

tra rocce-uova avanti la storia

(enormi: lisce: bianche)

tra cose senza nome

– suo padre quella sera remotissima –

poi vennero i gitani, Melquíades

la calamita che schiavarda i sogni.

E ora, Aureliano, il plotone:

schierato.

Chiarimento: mi piace molto giocare con i testi che amo in maniera particolare e così mi sono inventato una (improbabilissima) “traduzione” in versi dell’incipit famoso di Cent’anni di solitudine – quasi nessuna fedeltà alla lettera del testo, ma uno sguardo sempre commosso e ammirato all’intero romanzo, al labirinto di storie che abiteranno per sempre Macondo.

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