Baiadere in Gennaio

Oggi noi diciamo silhouette dal nome del ministro delle finanze francese Étienne de Silhouette (1709-1767) il quale emanò dei decreti fiscali talmente severi che si fece odiare dal popolo tassato oltremisura, ma anche dai nobili ai quali veniva imposto di versare tutti i propri averi in oro e argento all’erario. Alla fine dovette dimettersi. Si giunse ad indicare col suo nome quei ritratti che erano allora di moda, disegnati secondo l’ombra del volto ritagliata su un foglio, come dire che le imposizioni fiscali del ministro avevano portato le persone sul lastrico, riducendole ad ombre di sé stesse. Allo stesso modo vennero definiti “alla Silhouette” i pantaloni senza tasche.

I miei pantaloni invece hanno le tasche e dentro di esse io ho portato istintivamente le mani come per simulare indifferenza mentre invece attendevo con curiosità di capire chi fosse quella donna in avvicinamento. Mi sono accorto ben presto che si trattava di una passeggiatrice, pardon, una lavoratrice del sesso, dalla sua inconfondibile chincaglieria e dall’incedere plateale. Ma che ci fa una lavoratrice del sesso nei pressi di casa mia, mi sono chiesto, dal momento che mai in questo quartiere e nemmeno in tutto il paese se ne sono viste? La mia non era una preoccupazione di ordine morale, lungi da me, ma il desiderio di capire cosa avesse spinto quella prostituta ed il suo accompagnatore in una zona mai battuta dal meretricio. Sì, perché la signorina, che chiamare lucciola era più che mai appropriato in quel semibuio, si accompagnava ad un omaccione corpulento e dai modi spicci che pareva essere il suo protettore. Forse avevano sbagliato quartiere, magari la macchina era rimasta in panne, chissà quale ventura li aveva recapitati lì, ma essi procedevano a passo sicuro verso qualche mèta a me ignota. Che strana coppia. Lei, Clitennestra quadrantaria, ossia una bagascia da quattro soldi, seppur bella, come Cicerone definisce Clodia nella orazione Pro Coelio (XX)[1], e lui, il lenone, pornoboskòs in greco, che la seguiva passo passo quasi temendo che qualcuno potesse soffiargliela e sottrargli, con lei, la possibilità di lauti guadagni[2]. Un detto popolare recita: fimmina te talaru, caddhina te puddharu, trija te scennaru. Si addice a gennaio, dunque, secondo la mentalità patriarcale del passato, la donna che lavora al telaio, ossia la brava donna, devota alla casa e alla famiglia, morigerata, come la gallina di pollaio che non se ne va per i boschi libera e giuliva (ma quella è l’oca). Invece non è condecente al periodo la puttana, che nel passato era detta baiadera. Le baiadere (anbubaiae) erano nell’antica Roma le donne siriane suonatrici di flauto (anbub), per esteso le cortigiane. Della corporazione delle baiadere parla Orazio nella Satira II del Libro primo[3]. Siccome le cortigiane offrivano i loro servizi sui margini delle strade, venne dato loro il nome all’erba che cresce sul ciglio.

Quand’ero molto giovane e studiavo la cultura classica, mi piaceva far sfoggio di quelle acquisite conoscenze con i miei cari. Non ero allora certo entrato nell’ambiente degli studiosi e della promozione culturale sicché i miei referenti erano a volte gli amici più intimi o addirittura i genitori. Mi capitava in quel tempo, un po’ per sfoggio di bravura un po’ per provocazione, di sciorinare dei termini aulici per indicare cose prosastiche, nobilitare insomma con definizioni latine concetti terra terra. Definivo per esempio “lenone” o “prosseneta” il magnaccia e “baiadere” le prostitute. Beh, in effetti un conto è dire puttana ad una meretrice, un altro è dire baiadera. Ricordo che di fronte a queste arguzie, mio padre, sempre scettico se non pegiudizialmente avverso a qualsiasi cosa uscisse dalla mia bocca, una volta esclamò: “ah poveri sordi mei. Aggiu spisi tanti sordi cu te fazzu studiare e ddici ste cazzate!”. In fondo mi sono sempre sentito un po’ giullare, un funambolo, un pagliaccio, un cantimpanca. Fatto sta che la passeggiatrice e il suo protettore sono spariti come erano giunti, assorbiti dalla nebbia che ancora veleggiava sulle contrade di un gennaio morto come le cose richiamate dal suo triste ricordo. Chissà da dove provenivano e dove erano diretti. Il mio paese, Ruffano, deve essere stato per loro solo una stazione, un luogo di passaggio, un transito obbligato per altre più lucrose mete o magari essi venivano qui in avanscoperta, avendo saputo che questo è ormai il paese dell’amore e avendolo eletto a nuova piazza di meretricio. Se è così, lo sapremo, magari in primavera: per restare ai detti nosci: scennaru face lu peccatu e maggiu se lu chiange. Rientrato in casa, mi sono preparato per uscire perché l’ufficio mi attendeva e a baiadera e prosseneta non ho più pensato, tutto preso dal lavoro. Poi, stasera, sentendo là fuori i gatti in calore che emettono incredibili lamenti nelle loro schermaglie amorose, mi sono ricordato di quello strano incontro di ieri, in questo scennaru, menzu duce e menzu maru.



[1] Cicerone, Difesa di Marco Celio, Introduzione di Emanuele Narducci, Milano, Rizzoli, Bur classici greci e latini, 1989, p. 54.

[2] Si legga il divertente Mimo 2 di Eroda. Eronda, Mimiambi (I-IV), a cura di Lamberto Di Gregorio, Milano, Vita e Pensiero Pubblicazioni dell’Università Cattolica, 1997, pp. 10-18.

[3] Orazio, Satire, a cura di Mario Labate, Milano, Rizzoli, Bur classici greci e latini, 2018, p. 87.

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