Una prima parte del libro è dedicata più che altro al lavoro dei campi e alle traversie dei contadini che alla terra davano tutto sé stessi, lavorando come si diceva te sule a sule, ossia dall’alba al tramonto, in condizioni precarie, senza alcuna assistenza previdenziale né copertura assicurativa, senza alcuna tutela dai rischi connaturati nel lavoro manuale. Ma erano altri tempi, non si poteva ancora parlare della sensibilità riguardo la sicurezza sui luoghi di lavoro che oggi è maturata e ciò che contava davvero, nel disagio dei giorni, era mettere insieme il pranzo con la cena; non si facevano programmi per il futuro, si viveva di un quotidiano difficile e faticoso, il contingente era presentizzato in un hic et nunc che governava ogni scelta, sebbene l’unica scelta obbligata poi fosse la sopravvivenza. Le novelle della prima parte contengono elementi di velata critica sociale, esse hanno un carattere anticlericale e antipadronale apertamente dichiarato in Premessa dall’autore. I protagonisti dei racconti infatti soggiacciono a quel clima di sfruttamento, di abuso e prepotenze da parte dei signori contro cui gli umili lavoratori potevano ben poco. Ecco perché l’ambiente descritto può dirsi quello di un’epopea minore, l’epopea della terra o, se si vuole, l’epopea degli ppoppiti, i lavoratori della terra, i cafoni di tanta letteratura meridionale di impegno civile, coloro che etimologicamente abitavano sub oppidum o post oppidum (a seconda delle interpretazioni degli studiosi), ossia fuori dalle mura del borgo dove si trovava il castello del signore feudale, dunque i contadini. Questo termine è passato ad indicare la gente del Salento e in particolare dell’area più meridionale del Salento, ovvero di un territorio caratterizzato fino a cinquant’anni fa da un paesaggio prevalentemente agricolo. A sorreggere i contadini il loro spirito caustico, che faceva stemperare le angustie della vita attraverso un’ironia leggera, amara ironia, ma essenziale, e la fede ultraterrena, la spiritualità di cui tutti i ceti subalterni erano impastati e che si presenta ancora oggi iconicamente alla nostra attenzione attraverso le mille cappelle, cappelline ed edicole votive sparse sul territorio, espressioni di una fede semplice, illetterata, diretta. A sorreggere il lavoro degli zappaterra era anche una forma non codificata di solidarietà fra compagni di pena (i poveri fra di loro si devono aiutare, dicevano nei romanzi dell’Ottocento), una catena di mutuo soccorso non disciplinato dalle norme di legge ma invece dalla religione non scritta del popolo, quella del mal comune.
Nelle novelle della seconda parte del libro protagoniste sono le mogli che attendevano a casa i mariti dal lavoro dei campi e quindi ritraggono situazioni domestiche. Un mondo popolato da strane credenze, aneddoti, misteri e dal pettegolezzo tipico delle comari di paese. La lingua utilizzata è il dialetto, l’unica possibile in una popolazione semianalfabeta e anche la tecnica narrativa di Cassini si riflette in questo idioma popolare che è “la lingua te lu tata”, come si diceva. L’autore conosce non solo la letteratura nazionale, per essere un insegnante, ma anche la letteratura popolare e dialettale salentina sulla quale si sofferma nell’Introduzione. È un uomo dotto che compie una operazione di recupero memoriale attraverso lo scavo linguistico, sociale e letterario latu sensu. Indica infatti nel libro le fonti da cui ha tratto le novelle, che sono prevalentemente fonti orali, quelle dei parlanti dialettali, suoi parenti o amici che gli hanno trasmesso queste narrazioni, arricchite poi dal quel che l’autore ci ha messo di suo. Il dialetto parlato dai vari personaggi è quello tavianese e lo sfondo è sempre la sua Taviano, adattato nella contestualizzazione e vivificato dalla fantasia fermentante del narratore.
Alcuni racconti provengono della tradizione popolare, altri sono inventati dal Cassini oppure si innestano su nuclei di narrazioni preesistenti. L’autore fornisce anche delle note sulla fonetica. In un mondo fatto di vinti, che paga un certo tributo al Verga e al verismo meridionale, resta, come sboccata dall’imbuto del tempo, una speranza in fondo, che è quella indicata da Maurizio Nocera nel suo scritto, ossia la fede progressista nel domani da parte dell’autore, la speranza che l’uomo possa migliorare. Non resta che immergerci fra le pagine del libro e gustare queste storielle che hanno la memoria del nuovo e la novità del passato.