… Il telamone è qui, a due passi
dall’Ade (mormorio afoso, immobile),
disteso nel giardino di Zeus e sgretola
la sua pietra con pazienza di verme
dell’aria: è qui, giuntura su giuntura,
fra alberi eterni per un solo seme
(p. 175, vv. 27-32).
Così pure nella lirica Una risposta, che fa parte della raccolta La terra impareggiabile (1958), la rievocazione iniziale della figura di Ulisse navigante nel mare di Aci, dove accecò il mostro Polifemo («Se arde alla mente l’ancora d’Ulisse…», p. 226), è l’occasione per alcune considerazioni sul desiderio di sempre nuove conquiste da parte dell’uomo, sulla sua connaturata ansia di conoscenza emblematicamente rappresentata dall’eroe greco.
Ma, per concludere questo rapido excursus sul tema della Sicilia nella poesia di Quasimodo, vorrei soffermarmi su una poesia compresa nel suo ultimo volume di versi, Dare e avere (1966), Nell’ isola, che si può considerare quasi una sintesi dell’atteggiamento quasimodiano nei confronti della sua terra. Qui infatti la riflessione sulla storia dell’isola e sulle condizioni del popolo siciliano, che caratterizza, come s’è visto, le raccolte del dopoguerra, si fonde con il ricordo degli anni d’infanzia e d’adolescenza, che invece è tipico della sua prima produzione poetica. In essa insomma la dimensione collettiva va di pari passo con quella individuale. Ma questa poesia, a mio giudizio, si può vedere anche come un ideale testamento del poeta che la compone quasi in articulo mortis, guardando alla sua terra e alla sua vita, ancora una volta inscindibilmente intrecciati, quasi ormai da una prospettiva ultraterrena.
Dare e avere è l’ultima raccolta di Salvatore Quasimodo, pubblicata nel 1966, due anni prima della morte, presso Mondadori, che comprende ventitré poesie composte tra il 1960 e il 1966. Negli ultimi dieci anni della vita del poeta accaddero numerosi avvenimenti che incisero profondamente su di lui e sulla sua poesia. Alla fine del 1958, nel corso di una visita in Unione Sovietica fu colpito da un grave infarto che lo costrinse a restare nell’ospedale Botkin di Mosca ben sette mesi. L’anno dopo, nel ‘59 venne insignito del Premio Nobel per la letteratura scatenando, com’è noto, una serie di accese polemiche negli ambienti letterari italiani. Tra il 1963 e il 1964 compì una serie di viaggi in giro per l’Europa e l’America e, non a caso, molte poesie di Dare e avere sono ispirate ai luoghi visitati: Russia, Germania, Ungheria, Norvegia, Stati Uniti, Bulgaria, Inghilterra, Messico, Romania. Il 2 novembre 1965, infine, venne colpito da ischemia e rimase ricoverato per un mese nell’ospedale milanese di Sesto San Giovanni. Nel pomeriggio del 14 giugno 1968, infine, morì in una clinica napoletana a causa di una emorragia cerebrale. Dare e avere riflette quindi da vicino questo periodo così delicato della vita del poeta siciliano, ricco, da un lato, di riconoscimenti prestigiosi ma travagliato anche, dall’altro, da gravi problemi di salute.
L’ultimo libro di versi di Quasimodo ha perciò, anche per questi motivi, il senso di un consuntivo esistenziale e storico, individuale e collettivo. Non a caso vi figurano il presentimento della fine, ma anche ricordi d’infanzia, riflessioni sulla storia e l’evoluzione dell’umanità, che a volte si fondono tra di loro come nella composizione che esamineremo. Nella sua monografia su Quasimodo, Michele Tondo ha scritto che
il pensiero della morte, avvertita come sempre più vicina, diventa ossessivo direi, se non fosse che esso genera non angoscia e smarrimento, ma al contrario un sentimento di virile accettazione di un destino comune a tutti gli uomini, non disgiunta però dal rimpianto indicibile della «terra impareggiabile», che tra poco non ci vedrà più, ma anche dalla coscienza di aver vissuto la vita con umana pienezza e responsabilità.[1]
Ma esaminiamo adesso, più da vicino, questa poesia alla quale non è stata rivolta finora, a mio avviso, la dovuta attenzione da parte della critica. Intanto, bisogna mettere in rilievo il fatto che è l’unica composizione della raccolta in cui compare il ricordo, la rievocazione della Sicilia, in mezzo a tante altre ispirate, come s’è detto, a luoghi diversissimi e lontanissimi. Poi c’è una caratteristica di natura metrica che la distingue dalle altre. Nessuno ha mai notato che Nell’isola, che è composta in tutto di 36 versi, è la sola poesia di Dare e avere divisa in strofe (quattro, come vedremo, rispettivamente di 7, 13, 10 e 6 versi di varia misura, che vanno dal quinario al dodecasillabo e tredecasillabo, secondo quella tendenza alla prosasticità che è tipica dell’ultimo periodo della poesia di Quasimodo).[2] E questa divisione in strofe la differenzia da tutte le altre che sono invece monostrofiche. L’unica composizione della raccolta divisa in strofe (due per la precisione), oltre a Nell’isola, è l’ultima, Una lirica d’occasione, Versi ad Angiola Maria, che però fa un po’ parte a sé, essendo stata già pubblicata in un’edizione di soli cinque esemplari, come chiarisce lo stesso Quasimodo nella nota finale. Anche questo ci dà il senso del rilievo che essa assume all’interno del libro e dell’importanza che le attribuisce l’autore.
Bisogna aggiungere ancora che si tratta di una composizione complessa, articolata, costruita sapientemente da Quasimodo, a volte anche ardua da decifrare in certi passaggi, dall’andamento fortemente ellittico. Infine bisogna ricordare che di Nell’isola esistono due versioni precedenti, manoscritte, riportate nell’Appendice delle Poesie curate da Gilberto Finzi per i Meridiani, che hanno i seguenti titoli: Il costruttore anonimo, poi diventato Muratore siciliano, e La casa.
Ma ora vediamola più da vicino. Leggiamo la prima strofe:
Un colle, i simboli
del tempo, lo specchio della mente
continuo, immobile
ascoltano se stessi, attendono
la risposta futura. La nostra ora
scatta inavvertibile, affilato raggio
nel labirinto armonico
(p. 252, vv. 1-7).
In questa strofe, che costituisce quasi una premessa della lirica, c’è come un senso di sospensione, di attesa di una risposta sul senso stesso forse della vita umana, definita «affilato raggio / nel labirinto armonico», dove «raggio» riprende lo stesso termine della celeberrima lirica iniziale, eponima, di Ed è subito sera («Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera», p. 9)
Questa è la seconda strofe:
È marzo a spaccati celesti,
l’uomo esce dal suo letto di frasche
e va in cerca di pietra e di calcina.
Ha sui capelli Lucifero
che luccica nell’acqua, in tasca un metro
di legno giallo, i piedi nudi,
sa chiudere curve inclinare spioventi,
squadra, incatena spigoli, capriate.
Operaio e architetto, è solo,
l’asino porta macigni, un ragazzo
li rompe e ne stacca scintille. Lavora
tre quattro mesi prima del vischio
dell’afa e delle piogge, alba e crepuscolo
(p. 252, vv.8-20).
Qui emerge la figura astratta, assolutizzata dell’«uomo» costruttore, «operaio» e «architetto», simbolo dell’homo faber, che ha contribuito all’evoluzione della civiltà, ma in cui c’è anche un probabile riferimento personale all’attività di geometra svolta da Quasimodo in un certo periodo della sua vita. Oreste Macrì ha scritto che si tratta di una «figura proiettata nei ricordi d’infanzia, tra i “simboli / del tempo” e nello “specchio della mente”. Sta solo nella netta natura, mattutino e astrale, è l’uomo assoluto e puro con le elementari materie e strumenti del costruire».[3]
Nella terza strofe, si passa da una considerazione astratta (l’«uomo» in assoluto) a una riflessione concreta sulla vicenda millenaria della Sicilia, sulla stratificazione di razze, di culture, di civiltà diverse (greci, svevi, spagnoli, arabi) che hanno contribuito al suo sviluppo. Il poeta ora sembra acquietarsi al pensiero della continuità della storia, del fluire inarrestabile delle vicende umane che trascende la vita dei singoli individui. Leggiamo allora anche la terza strofe:
Di tutte le mani che alzarono muri
nell’isola, mani greche o sveve
mani di Spagna mani saracene,
muri del solleone e dell’autunno,
di tutte le mani anonime e ornate
di sigilli, vedo ora
quelle che gettarono case
sul mare di Trabia. Linee verticali,
avvolgimenti dell’aria inclinati
dalle foglie dell’acacia e dei mandorli
(p. 253, vv. 21-30).
Nella quarta, infine, si ritorna a una dimensione privata col ricordo dell’infanzia lontana e di una salita su una collina fatta «con altri ragazzi», in una zona archeologica, quella di Solunto, nei pressi di Palermo. E qui non si può non notare l’analogia con la situazione descritta in Vento a Tindari (anche lì una gita sul colle con una «brigata» di amici) quasi a voler stabilire una ideale continuità («Tìndari, mite ti so / fra larghi colli pensile sull’acque / delle isole dolci del dio»). Ma adesso la riflessione di Quasimodo sulla sua terra, partita dalla propria vicenda personale, assume un significato e un valore universale che riguarda il destino di tutti gli uomini. Qui il ricordo si mescola col sentimento delle antiche civiltà sepolte, dando il senso della continuità della vita che sembra pullulare dalla morte:
Oltre le case, laggiù, fra i lentischi
delle lepri, c’è Solunto morta.
Salivo quella collina un mattino
con altri ragazzi lungo
interni silenzi. Dovevo
ancora inventare la vita
(p. 253, vv. 31-36).
E in quest’ultimo, bellissimo verso, spezzato in due, ma che costituisce un endecasillabo («Dovevo / ancora inventare la vita»), Quasimodo riesce, mi sembra, a dare il senso più profondo dell’infanzia, di ciascun essere umano, non solo della sua, allorché il futuro è incerto, nebuloso e, appunto, ancora tutto «da inventare».
[In “Sinestesieonline”, n. 44, a. XIII, dicembre 2024, pp. 1-12]
[1] M. Tondo, Salvatore Quasimodo, Mursia, Milano 19712, p.138.
[2] Sulla metrica di Quasimodo cfr. M. Martelli, Il problema metrico nella poesia di Salvatore Quasimodo, in Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e oltre cit., pp. 89-103.
[3] O. Macrì, La poesia di Quasimodo. Studi e carteggio con il poeta cit., p. 239.