Da Vento a Tindari (1930) a Nell’isola (1966): la Sicilia di Quasimodo (seconda parte)

di Antonio Lucio Giannone

Salvatore Quasimodo, 1953.

Ma il tema della terra d’origine è presente anche nelle ultime raccolte di Quasimodo. In esse si attenua il tono polemico e di denuncia e compare invece una riflessione più serena e distaccata sul senso della storia e della vita dell’uomo. In Le morte chitarre, ad esempio, compresa nella raccolta Il falso e vero verde (1954), la storia millenaria della Sicilia che ha saputo affrontare tante traversie costituisce un esempio per il poeta che dichiara di ispirarsi alla sua «razza» aspra e fiera. Questi sono gli ultimi versi:

Chi piange? Io no, credimi: sui fiumi

corrono esasperati schiocchi d’una frusta,

i cavalli cupi i lampi di zolfo. 

Io no, la mia razza ha coltelli

che ardono e lune e ferite che bruciano

(p.163, vv. 17-21).

Anche luoghi e personaggi mitici che ritornano costantemente non sono più il pretesto per  trasfigurazioni fantastiche, come nelle raccolte degli anni Trenta, ma costituiscono un motivo di meditazione per Quasimodo. Si veda l’intera sezione Dalla Sicilia di Il falso e vero verde e, in particolare, Tempio di Zeus ad Agrigento, dove il gigantesco telamone del tempio di Zeus Olimpico di Agrigento, roso dal vento e dagli agenti atmosferici, diventa ora il simbolo della precarietà della condizione umana. Anche stavolta leggiamo gli ultimi versi: 

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