di Antonio Devicienti
Credo che il concetto di analfabetismo sia spesso inficiato da un pregiudizio di natura classista.
Se l’etimologia allude chiaramente a chi è “senza alfabeto”, quindi non è in grado di leggere i segni alfabetici, l’impiego del termine andrebbe mondato di una frequente pregiudiziale spregiativa – si pensi soltanto ai contadini non alfabetizzati che, entrando e muovendosi negli spazi di un edificio sacro romanico, leggevano segni simboli e figurazioni di cui noi moderni abbiamo spesso smarrito i codici interpretativi. Siamo noi, allora, in questo caso gli “analfabeti”. E quei contadini possedevano una cultura, trasmessa oralmente di generazione in generazione, ricca di fiabe, proverbi, leggende, sapiente nel suo rapporto con la natura e con il ciclo agrario delle stagioni.
Quando il musicologo Marius Schneider studia i chiostri di San Cugat e di Girona in Catalogna scoprendo nelle raffigurazioni dei capitelli e nella disposizione degli stessi la rappresentazione in forma di scultura di inni liturgici “legge” qualcosa che avevamo perduto, alfabetizza noi “moderni” che, spesso, abbiamo smarrito molti legami con il nostro passato.
Quando cerchiamo d’interpretare le raffigurazioni del mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto continuiamo a scoprirci analfabeti, ci sforziamo di capire (non sempre riuscendoci).
Quando ancora Marius Schneider propone un’interpretazione su base etno-musicale dei miti e delle raffigurazioni mitiche di molti popoli risalendo fino al Megalitico non possiamo non vedere quanto povera sia diventata la nostra visione del mondo, spesso appiattita sul cosiddetto progresso tecnico-scientifico.
Chi entrava in una Cattedrale o in un Chiostro romanici udiva e vedeva intorno a sé una musica e un canto, si muoveva in spazi cadenzati dalla luce e dall’ombra, dal suono e dal silenzio, da immagini e da simboli, manteneva un rapporto polifonico e polimorfico con l’universo.