Il busillis

di Paolo Vincenti

Con l’associazione socio-culturale di cui sono membro, assisto ad una funzione religiosa insieme ad un amico che mi ha accompagnato. La funzione religiosa giunge a coronamento di una cerimonia di consegna di abiti usati ed altro materiale di consumo a favore della locale sezione della Caritas. “In quei giorni”: il sacerdote ha iniziato a leggere il Vangelo quando io, seduto in fondo alla chiesa in una bircia domenica mattina d’autunno, uggiosa e sbiellata, subito mi distraggo, e per quelle insopprimibili associazioni di idee che si vengono a creare nella nostra testa, penso al “busillis” di un problema lavorativo che si trascina da giorni, troppi per me. Infatti, abituato ad affrontare e risolvere i problemi in tempi relativamente brevi, non mi faccio una ragione del fatto che questo si trascini da settimane senza una soluzione. Non sono un genio del problem solving (come dicono quelli “bravi”) ma riesco di solito a chiudere una questione in maniera abbastanza veloce grazie ad una certa inquietudine che mi fa vivere male nelle tribolazioni e mi spinge a scioglierle presto a qualsiasi costo. Cioè, quando un particolare problema assilla i miei giorni e mi impedisce di pensare ad altro, mi sento come in dovere con me stesso, prima ancora che con i colleghi, i famigliari o gli amici, di risolverlo, per potermi dedicare con maggiore serenità a tutto il resto. In questa domenica mattina di novembre, dunque, assistendo alla messa, riservo davvero poca attenzione alla liturgia, alle parole del sacerdote e anche agli amici soci. Solo quelle prime parole del Vangelo hanno catturato la mia attenzione, per portarmi lontano dalla situazione contingente. Sono i primi versetti del Vangelo di Marco a suggestionarmi, ed il motivo è presto detto: nella versione latina del Nuovo Testamento, la famosa traduzione di San Gerolamo, quelle parole si traducono: In diebus illis. Io penso che proprio da una loro errata grafia e interpretazione nei secoli passati, in die busillis, è venuto il vocabolo italiano busillis, che significa grosso guaio, faccenda intricata, difficile da risolvere, e poi, per estensione, anche rebus. Si tratta del cosiddetto latino maccheronico, quello che parlavano nel Basso Medioevo le classi subalterne e gli illetterati, i quali, non conoscendo la lingua latina, la storpiavano a proprio uso e consumo. Ma i miei pensieri sono ormai del tutto assorbiti dalla intricata faccenda che domani mattina dovrò affrontare appena arrivato in ufficio e per tutta la durata della messa il tarlo non mi abbandona. Al momento della benedizione, vengo riscosso dal mio amico che, vedendomi ieratico e poco fidando in un mistico rapimento, mi dà di gomito per invitarmi ad uscire, sgombrando lo scranno per fa passare anche lui. Poi, conoscendo la mia natura e sapendomi costantemente sopra pensiero, sulla strada del ritorno mi chiede in quali elucubrazioni fossi immerso durante la funzione, ma abbandona subito la curiosità e nemmeno ascolta la mia svogliata risposta perché nel frattempo anche lui è stato probabilmente colto da un suo busillis.

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