Da Vento a Tindari (1930) a Nell’isola (1966): la Sicilia di Quasimodo (prima parte)

Questo tema emerge già nella prima raccolta di versi, Acque e terre, pubblicata nel 1930, nelle Edizioni di «Solaria», a Firenze, dove il poeta si era trasferito l’anno prima, allontanandosi per sempre dalla Sicilia, di cui gli era rimasta nel sangue un’acuta nostalgia. Ecco allora che i luoghi incantati della sua infanzia e della prima giovinezza, vissute in piena armonia con la natura, si affacciano improvvisamente alla memoria e assumono il significato di un bene irrimediabilmente perduto, di una sorta di Eden che si contrappone all’infelicità del presente. È, questo, lo spunto iniziale di Vento a Tindari, una delle sue più celebri composizioni, in cui l’improvviso riaffiorare alla memoria di una gita domenicale, compiuta in una località collinosa della provincia di Messina, Tindari, in compagnia di una «brigata» di amici, diventa, per il poeta ormai lontano da essa, l’occasione per riflettere sulla condizione di «esilio» in cui vive ora, caratterizzata da un’«ansia precoce di morire» e dalla «tristezza». Leggiamo la quarta strofe:

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza,

tacito passo nel buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere 

(vv. 23-30).[3]

Qui compare anche, per la prima volta, quella evocazione in chiave mitica della Sicilia e delle sue origini greche (le «isole dolci del dio», espressione con cui l’autore allude alle isole Eolie, sacre, un tempo, a Eolo, il mitologico dio dei venti), che sarà un altro tratto caratterizzante della poesia di Quasimodo.

Nelle raccolte successive, Oboe sommerso (1932) e Erato e Apòllion (1936), improntate alla cosiddetta «poetica della parola», tipica della sua prima fase, a prevalere è sempre una immagine della Sicilia come rifugio, come àncora di salvezza nella dispersione del vivere quotidiano, come  luogo di beatitudine celestiale. Non a caso, la lirica Alla mia terra, che fa parte di Oboe sommerso, termina con un paragone ultraterreno. Leggiamo anche qui la quarta, l’ultima strofe:

In te mi getto: un fresco

di navate posa nel cuore;

passi ignudi d’angeli

vi s’ascoltano, al buio

(p. 41, vv.19-22).

In Isola, compresa sempre in questa raccolta, la «dolce voce» della sua terra è un richiamo irresistibile che gli permette di sfuggire, sia pure per un attimo, all’«ansia d’altri cieli», cioè agli affanni dell’esistenza in luoghi forestieri,  e nascondersi «nelle perdute cose» (p. 60), cioè nel passato, in quei beni persi per sempre. Ma ora la Sicilia è vista in una dimensione metatemporale e astorica, evocata nei suoi elementi paesaggistici dal sapore primordiale, come in Isola di Ulisse, che fa parte di Erato e Apòllion. Questa è la seconda strofe:

Dal fuoco celeste 

nasce l’isola di Ulisse. 

Fiumi lenti portano alberi e cieli 

nel rombo di rive lunari

(p. 89, vv. 5-8).

Qualche novità è dato cogliere in Nuove poesie, scritte tra il 1936 e il 1942, poi entrate a far parte del volume Ed è subito sera (1942), che preannunciano il cosiddetto “secondo tempo” di Quasimodo, stabilitosi ormai definitivamente a Milano. Qui quel paesaggio allucinato, cosmico, immerso in un silenzio astrale, al centro delle due raccolte precedenti, incomincia a rianimarsi, si popola di presenze concrete, di voci, gesti, suoni, odori. Ritornano così, nella memoria del poeta, immagini umane e animali, segni della storia remota e della realtà attuale: i fanciulli che «con leggeri / moti del capo danzano in un gioco / di cadenze e di voci lungo il prato / della chiesa» (Ride la gazza, nera sugli aranci, p. 101); l’odore acuto di zagare portato dal «vento del sud» (ibid.); la visione di resti di civiltà antichissime, come i templi greci con le statue dei telamoni «lugubri, riversi / sopra l’erba», (Strada di Agrigentum, p. 102); il suono del marranzano che «tristemente vibra / nella gola al carraio che risale / il colle nitido di luna» (ibid.); il bestiario, favoloso o comune (i puledri, gli aironi, le gazze, le gru, le colombe, i cavalli).

Ma una vera e propria svolta nell’attività letteraria di Quasimodo si ha soltanto, com’è noto, negli anni dell’immediato dopoguerra con la raccolta Giorno dopo giorno (1947), allorché matura, nel poeta siciliano e in genere negli ermetici meridionali, l’esigenza di una maggiore apertura comunicativa e, al tempo stesso, un’attenzione ai dati umani  e sociali della realtà[4]. La sua poesia, allora, da lirica si fa corale ed epica e non disdegna di affrontare temi tratti dalla storia e finanche dalla cronaca, con un totale impegno etico e civile. Dalla «poetica della parola» si passa, insomma, alle «parole della vita»[5]. Anche l’immagine della Sicilia cambia e un duro senso del reale prende il posto degli elementi favolosi e mitici, della trasfigurazione fantastica a cui il poeta aveva sottoposto la sua terra. L’«isola di Ulisse» diventa ora il simbolo dell’intero Sud, e, non a caso, questo termine, più ampio e generale, balza in primo piano e prende il posto dell’altro[6]. Leggiamo, ad esempio, la strofa finale di A me pellegrino, dove, accanto al motivo della “lontananza”, geografica e ideale, della sua terra, c’è l’allusione alla lunga storia di lutti e di dolore del Sud:

La nostra terra è lontana, nel sud,

calda di lacrime e di lutti. Donne,

laggiù, nei neri scialli

parlano a mezza voce della morte,

sugli usci delle case

(p. 136, vv. 14-18).

Ancora più chiaramente questa nuova immagine della Sicilia emerge in una composizione compresa nella raccolta La vita non è sogno (1949), dal titolo Lamento per il Sud, dove il ritorno consueto, col pensiero, alla terra d’origine non è solo ormai la proiezione della propria vicenda interiore, ma si carica di una riflessione sulla storia del Mezzogiorno, sul passato di miserie e di sopraffazioni, di sofferenze e di dolori della gente del Sud, espressa, sia pure, con una certa dose di enfasi e di oratoria. Questa è la seconda strofe:

Oh il Sud è stanco di trascinare morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di solitudine, stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi

che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,

costringono i cavalli sotto coltri di stelle,

mangiano fiori d’acacia lungo le piste

nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.

Più nessuno mi porterà nel Sud

(p. 148, vv. 14-25).

D’altra parte, Quasimodo, nel suo famoso Discorso sulla poesia, del 1953, in cui aveva sferrato un duro attacco all’ermetismo, aveva affermato la vitalità di «quell’altra geografia poetica e popolare  [dove] è fedele la presenza dell’uomo, i suoi sentimenti, i gesti, le opere» (p. 291). Per questo aveva indicato proprio nel Sud, ma anche, più in generale, nella concretezza della propria terra, nel recupero delle proprie radici, della propria identità, una delle possibili fonti di ispirazione e di rinnovamento per la poesia nel secondo dopoguerra e negli anni Cinquanta. È un brano famoso che vale la pena di rileggere:

«Sono uomini del Sud, spesso; della Lucania, degli Abruzzi, delle Puglie, delle isole, ma anche del Piemonte, del Veneto, che, avuta una eredità terragna e feudale, aprono i loro dialoghi dritti e netti sulla loro sorte. Non hanno infanzia, né memoria di essa, ma catene ancora da rompere e concrete realtà per entrare nella vita culturale della nazione. Le muse dei boschi e delle valli tacciono in loro: rigurgitano invece i boati delle frane e delle alluvioni per le loro mitologie contadine. Faremo un giorno una carta poetica del Sud; e non importa se toccherà la Magna Grecia ancora, il suo cielo sopra immagini imperturbabili d’innocenza e di sensi accecanti. Là, forse, sta nascendo la «permanenza» della poesia» (p. 290).

            Il poeta siciliano era ormai il capofila della nuova poesia, nata dalle macerie della guerra e aperta al reale, come riconobbe esplicitamente  Vittorio Bodini che, come s’è detto, gli dedicò un articolo apparso sulla «Fiera letteraria» nel 1955. In esso metteva in rilievo l’attenzione da lui rivolta al Sud, che per la prima volta si affacciava alla ribalta della lirica italiana.  Il primo merito di Quasimodo, infatti, secondo Bodini, era stato quello di approdare, già nel periodo ermetico, alle «sue terre d’uomo» cercando l’Eden, in quanto «le sue parole ‒ scrive ‒ raggiunsero paesi e oggetti reali, che erano d’un territorio vergine nella geografia lirica italiana: il Mezzogiorno, anzi il Sud […]. Quasimodo ha dunque riscattato alla poesia di una nazione luminosa e sensibile (non già nordica e astratta) un territorio che rappresenta più di un terzo della sua superficie».[7]

Bodini accenna poi all’importanza svolta nella sua poesia dal «sentimento», che era anzi «la chiave» di cui s’era servito «per arrivare ai suoi oggetti».[8] Da qui l’osservazione che quindi la poetica della parola «non fu la molla esclusiva»[9] della sua poesia, come pretendeva certa critica. Ancora una volta, infine, gli dà atto del coraggio dimostrato nell’aver rinunziato a privilegi e a posizioni conquistate per mettersi di nuovo in gioco, assumendosi una «congiunta responsabilità di uomo e di poeta»[10] nell’accettazione di contenuti “impoetici”, tratti dalla drammatica realtà e anche dalla cronaca di quegli anni («l’infelice tunnel della guerra e dei morti, della viltà, della neve e della paura»).[11] Questo gli aveva procurato gli attacchi di quanti  gli rimproveravano di non essersi attenuto «al gioco dei temi proibiti, dei sentimenti proibiti, della purezza»[12]. Ma ormai, concludeva Bodini, Quasimodo deve essere considerato «il solo poeta civile che abbia avuto l’Italia della guerra e dell’occupazione: e civile non significa stavolta retorico e declamatorio, ma di umana civiltà, di chinarsi, di scendere col proprio dolore fino al dolore degli uomini, e far sentire loro che almeno una parola cercava di raggiungerli nello sgomento», [13] dove non può sfuggire questa distinzione che richiama quella del Discorso  quasimodiano tra «poesia sociale» e «poesia sociologica»:

«Siamo alla fioritura di una poesia sociale, cioè che si rivolge ai vari aggregati della società umana. Non poesia sociologica, perché nessun poeta sogna di fare del sociologismo, richiamando le forze dell’anima e dell’intelligenza. Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi hanno scritto poesie sociali, poesie necessarie in un dato momento della civiltà. Ma la poesia della nuova generazione, che chiameremo sociale, nel senso che s’è detto, aspira al dialogo più che al monologo, ed è già una domanda di poesia drammatica, una elementare «forma» di teatro» (p. 288).

Per tutti questi motivi, spiegava Bodini, Quasimodo va riconosciuto come «l’iniziatore della poesia meridionale», anche se, precisava, tale definizione non va intesa in senso limitativo, perché anzi «dall’acquisto d’un paesaggio rimasto finora inesplorato e al di fuori degli schemi della poesia italiana, questa ne ha ottenuto nuovo sangue e luce».[14]

[In “Sinestesieonline”, n. 44, a. XIII,  dicembre 2024, pp. 1-12]


[1] Su questa linea poetica cfr. A.L. Giannone,  La linea meridionale nella poesia italiana del Novecento, in Lingua e letteratura del Sud nell’Italia del Novecento. Atti del Convegno internazionale Università diGöterborg. 13-15 settembre 2011, a cura di U. Åkerström, Aracne, Roma 2013, pp. 15-33; poi in Id., Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Edizioni di Sinestesie, Avellino2020, pp. 183-203; S. Giorgino, Carta poetica del Sud. Poesia italiana contemporaneo e spazio meridiano Musicaos editore, Neviano (Le) 2022.

.

[2] V. Bodini, Quasimodo iniziatore della poesia meridionale. Le sue terre d’uomo, in «La Fiera letteraria», x,  29, 17 luglio 1955, p. 5; poi, col titolo Quasimodo, in Id., «Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970), a cura di A.L. Giannone, BesaMuci, Nardò (Le) 2020, pp. 154-157.

[3] S. Quasimodo, Vento a Tindari (Acque e terre), in Id., Poesie e discorsi sulla poesia, a cura e con introduzione di G. Finzi. Prefazione di C. Bo, edizione riveduta e ampliata, Milano, Mondadori (“I Meridiani”), 1998, p. 11. Da questa edizione sono tratte le citazioni dei versi e delle prose di Quasimodo. Tra parentesi indichiamo il numero della pagina corrispondente.

[4] Su questo aspetto Cfr. R. Aymone, Poeti ermetici meridionali, Palladio, Salerno 1981.

[5] Così Oreste Macrì ha intitolato un suo saggio: cfr. O. Macrì, Poesie di Quasimodo: dalla «poetica della parola» alle «parole della vita», in Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e oltre, a cura di G. Finzi, Laterza, Bari1986, pp. 5-60; poi, notevolmente ampliato, in Id., La poesia di Quasimodo. Studi e carteggio con il poeta, Sellerio, Palermo 1986, pp. 19-278.

[6] Sul tema del Sud nella poesia di Quasimodo si rinvia a A.L. Giannone  Quasimodo e il Sud, in Quasimodo a Taranto, a cura di G. Iacovelli, «Italia Nostra», Massafra 2008, pp. 11-23; poi in Id., Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Milella, Lecce 2013, pp. 121-128. Da questo saggio deriva in parte il presente lavoro.

[7] V. Bodini, Quasimodo, in Id., «Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970),  cit., p.155. Sul rapporto tra il poeta siciliano e quello salentino ci sia permesso di rinviare a A.L. Giannone, Quasimodo, Bodini e l’ermetismo meridionale, in «Rivista di letteratura italiana», xxi, 1-2, 2003, Atti del Convegno internazionale di studi Nell’antico linguaggio altri segni. Salvatore Quasimodo poeta e critico, a cura di G. Baroni, pp. 149-158; poi in Id, Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano cit., pp. 129-143.

[8] V. Bodini, Quasimodo, in Id., «Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970)  cit., p. 156.

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] Ibid.

[12] Ivi, p. 157.

[13] Ibid..

[14] Ibid.

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