I resti di Babele 15. Ragni, musica e possessioni nello sguardo dell’antropologa

di Antonio Errico

Giovane, appassionata, con un bagaglio rigonfio di attesa e di stupore, con gli occhi spalancati sul paesaggio e il cuore che si apriva all’incontro di storie e di esistenze, Annabella Rossi venne in Salento con l’équipe di Ernesto De Martino, quando gli anni Cinquanta svoltavano al finire e lei di anni ne aveva ventisei. Annabella guardava i paesi arrampicati che si affacciavano sul Tavoliere, e immaginava danze sfrenate di tarantati nelle piazze, e fantasticava sul nome Montecorvino e sul nome Vulturara che generava immagini di avvoltoi, e quando arrivarono in Salento il suo ricordo si fermò sull’immagine di un violinista cieco e su quella di una suonatrice di tamburello. Gliene aveva parlato il maestro, Ernesto de Martino, come fece nella Terra del rimorso: “Quando sopraggiungeva la stagione della taranta e del suo morso, il vecchio cieco percorreva nelle tenebre i paesi immersi nel bianco ardore della penisola e visitava Torchiarolo, Arnesano…ovunque praticando l’esorcismo risanatore”. Poi il viaggio continuò, fino a Galatina, fino ad una misera locanda che si chiamava Cavallino bianco, si fermò nelle case delle tarantata, nei bassi che si aprivano sulla strada e custodivano il dolore di donne vestite di bianco, abbandonate sul letto, con i musicisti lì, pronti, a scacciare il veleno.

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