Brutta gente

Tutti abbiamo pregi e difetti ma spesso i secondi sono più evidenti dei primi, più manifesti e tangibili. Ciò perché i difetti altrui ci arrecano maggiore fastidio, ci creano disagio, mentre i pregi ci lasciano indifferenti specie se non portano un utile concreto, un vantaggio immediato nelle nostre vite. È proprio come nella favola di Fedro delle due bisacce. Lo scrittore sosteneva che alla nascita all’uomo sono state poste due bisacce: in quella anteriore sono contenuti i difetti altrui, che vediamo perfettamente, in quella posteriore i nostri difetti, che non riusciamo a vedere ma vedono bene quelli che stanno dietro a noi[3]. Io che non sono alieno dal dileggio, che non riesco a non stimmatizzare i difetti altrui, cerco di compensare facendo una certa autocritica, sforzandomi di essere severo anche con me stesso. Per esempio, alcuni accusano la mia scrittura di essere particolarmente erudita e a volte ridondante. Ciò è vero. Verbigrazia, in questo pezzo ho citato Orazio, Sidonio Apollinare e Fedro. In realtà, più che sfoggio di conoscenza, la mia è mancanza di fiducia nel mio pensiero. Una volta scrissi un pezzo che si intitolava Psico-l’abile forever:

“Mi capita spesso di non esser d’accordo con me stesso. Che brutta sorte è l’esser diviso a metà, fra la vita e la morte, esser diviso a metà, fra quel che era e quel che sarà. Ma non mi va di sostenere un contraddittorio con me stesso, perché sarebbe solo tempo perso. Non mi va di litigare con me, e allora me la prendo con te. E tu mi dovrai capire, amico caro, per questo mio modo di fare, ma purtroppo essere scisso, ti assicuro, è peggio di un ascesso, perché l’odontoiatra potrà curarti il dente, ma nemmeno Carlo Gustavo Jung potrà guarire un demente, come me, che si crede te. Parlo e rido come te, che certo non sei me, ballo proprio come te, eh!eh!, cammino e scrivo come te, eh!eh!,  ma un rimedio a questo sdoppiamento non c’è.  Che malattia, questa schizofrenia, che mi porterà via. Faccio a pugni con me stesso, ma non cambia niente lo stesso, e allora so che è tempo sprecato prendersela con un malato, è un po’come sparare sulla croce rossa, voler avere su di me una riscossa. Nella mia scrittura, questa eteronimia è segno evidente di follia, però non la follia creativa dei grandi artisti, ma quella autopunitiva, tipica dei depressi…”.

Come si evince da questo estratto, era un pezzo davvero delirante che non ricordo in quale libro pubblicai.

Il fatto che citi gli autori classici dipende quindi dal mio problema di cui sopra, ossia che io poco confidi nella forza del mio pensiero (un pensiero debole direi, si parva licet, scomodando Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti) e abbia bisogno di appoggiarmi ai miei maggiori per accreditare una affermazione di principio. L’ho sempre fatto, fin dai primi libri, che più citazionisti non potevano essere. Ricordo che per la pubblicazione del libro Di tanto tempo (Questi sono i giorni) cercavo un modo non banale di indicare in calce alle prose creative le mie fonti. Luigi Scorrano un giorno mi suggerì la formula “In compagnia di…”, che subito adottai (“In compagnia di: Alceo, Mimnermo, Callimaco”; “In compagnia di: Vittorio Alfieri, Giacomo Leopardi”, ecc.). Nei crediti di quel libro ringraziavo, tra gli altri, il professor Scorrano “per la compagnia”. Poi nei libri seguenti ho adottato anche la più consueta formula “con” per indicare le citazioni disseminate nei brani (“Con: Omero, Orazio, Iacopone, Cecco Angiolieri”, ecc.). Tutto questo per dire che, prima di criticare gli altri, cerco di essere critico con me stesso. Ma probabilmente quanto esposto non vale come auto-accusa, troppo comodo confessare simili mancanze, per giunta molto letterarie. Per apparire credibile dovrei dire di essere arrogante, egoriferito, spocchioso e vanitoso, anzi un narcisista patologico. E sia, lo dirò. Ma che brutta gente c’è in giro. E per tutta l’autocritica che io possa fare, nessuno mi toglierà la convinzione che si vivrebbe meglio se certi spavaldi non ci fossero.

Note


[1] Orazio, Epodi, I, 6, 1-2

[2] Ivi, 9-10.

[3] Fedro, Favole, Libro Quarto, X.

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