La grandezza di Leopardi così diversa per ciascuno

Quando Giacomo scrisse L’infinito aveva vent’anni e un’esistenza già straziata. Quella sinfonia impetuosa e pacata, quella riflessione leggera e profonda sullo spazio, sul tempo, quell’inabissamento nell’infinito silenzio, quella brezza di enjambement, quel vuoto rigonfio di suoni, quell’affiorare morbido di sensi, rappresenta una dimensione di congiungimento dell’umano con il sovrumano, del transeunte con l’eterno, della finitudine che cerca una consolazione nell’idea o nella suggestione di un infinito, oppure nella sua figurazione, nella sua trasfigurazione, nella sovrapposizione di desiderio e di spaurimento.

Ciascuno di noi si tiene i versi dell’Infinito dentro: in profondità, in superficie, forse compatti, forse confusi, a volte raggrumati nell’impasto degli anni.

Forse li avrà incontrati una sola volta in un giorno di scuola media, forse una volta sola in un giorno di superiore, o forse li avrà letti decine di volte, centinaia, per studio, per passione, attraversando la loro sperimentazione dell’incognita e dell’immenso, confrontandosi con la rappresentazione dell’arcano, oppure della solitudine, oppure dell’ansia di sconfinamento.

Ciascuno di noi ha il proprio Infinito dentro, un proprio concetto o sentimento della siepe, dell’ultimo orizzonte, dell’immensità in cui il pensiero potrebbe o vorrebbe sperdersi, annegare. Ciascuno ha una propria, unica, imparagonabile, assoluta concezione della condizione del naufragio e del mare in cui si naufraga, e della dolcezza che talvolta anche il naufragio fa assaporare.

Tutto può accadere, leggendo l’Infinito. Anche l’incomprensione. Tutto può accadere, meno che l’indifferenza. Quale che sia l’intensità della lettura, c’è sempre almeno un verso, anche uno soltanto, che s’inchioda nelle strutture della memoria. Almeno il primo verso; almeno l’ultimo: Sempre caro mi fu quest’ermo colle; E il naufragar m’è dolce in questo mare. Tutti gli altri versi sono portati da questi due: dal primo e dall’ultimo. Dalla loro musicalità sublime.

Aveva vent’anni quando scrisse i quindici endecasillabi sciolti.

Forse mentre li scriveva, per qualche istante gli si lenivano i dolori, si liberava dai risentimenti che aveva nei confronti di se stesso.

Cominciò con la dolcezza di un affetto, dicendo “sempre caro”.  Finì con la dolcezza di un lasciarsi andare, di un consegnarsi con serenità all’oblio e al mare quieto e misterioso dell’infinito.

Poi bisogna anche dire che chiunque intenda in qualche modo e per qualsiasi ragione occuparsi di Giacomo Leopardi, soprattutto dell’ultimo Leopardi, non potrà fare a meno di confrontarsi con il suo testamento: quello che ha scritto Roberto Vecchioni in una canzone che si intitola L’infinito. Non potrà fare a meno di considerare tutta quella delicatezza e tutta quella robustezza che percorrono i versi, che si condensano nelle parole, con quel rovesciamento delle prospettive, con il carico enorme di emozione e di commozione, con la stanchezza del dolore, il desiderio di vivere oppure soltanto l’ansia di sopravvivere. Ancora.  Forse ci riesce in quei suoi ultimi giorni a Napoli, mentre implora il suo dolore di andarsene via per sempre, mentre il profumo della ginestra lo consola, mentre scrive quei versi del “Tramonto della luna” che dicono così: “Tosto vedrete il cielo imbiancar novamente, e sorger l’alba”. Vedrete, scrive. Non scrive vedremo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 10 gennaio 2025]

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