di Antonio Errico
Giacomo Leopardi non esiste. Certo, ha avuto un tempo della vita vera, ma poi si è trasformato in una gigantesca figura dell’immaginario. Così, ognuno di noi ha il suo Leopardi – dentro – che solo un po’ è com’è stato veramente, soltanto un poco e a volte molto vagamente.
Sergio Rubini ha raccontato il suo Leopardi. Quando si racconta di un gigante, può anche accadere che il modo in cui la storia viene raccontata a qualcuno non piaccia. Proprio perché si tratta di un gigante. Però, al di là di ogni considerazione, di ogni interpretazione personale e sentimentale, il film di Rubini trova il suo significato essenziale nel fatto d’essere riuscito a richiamare l’attenzione dei ragazzi. Che se uno di loro, uno soltanto, andrà a rileggersi L’infinito, allora vorrà dire che il film un miracolo lo ha compiuto.
Ognuno di noi ha il suo Leopardi dentro: se lo è configurato nel corso degli anni, lo ha elaborato, ha lasciato che si stratificasse, lettura dopo lettura, con la lettura degli stessi versi in tempi diversi. In tempi diversi ognuno di noi ha dato un significato ulteriore a quella reticenza terribile e stupenda che esplode alla fine del Sabato del villaggio, per esempio: “altro dirti non vo’”. A quindici anni significa una cosa, a trenta un’altra, a cinquanta un’altra ancora. A quindici anni ci si domanda che cosa non vuole dire, a trenta si comincia ad intuire, a cinquanta lo si capisce perfettamente, e si capisce perfettamente che ha fatto bene a non fartelo capire quando ne avevi quindici.