Quali scuole hai frequentato?
La scuola elementare “Michele Montanari, poi ho frequentato la scuola media “Giovanni Pascoli”, ed infine mi sono iscritto all’Istituto tecnico commerciale “Michele Laporta”.
Ricordi qualche insegnante della scuola media?
Ricordo l’insegnante di Italiano, la prof.ssa Maria Tartaro. Con gli insegnanti di lettere ho sempre avuto un buon rapporto.
Quando è avvenuto il tuo primo approccio con la politica?
Ho scoperto la politica nella scuola superiore, verso il terzo anno (tieni conto che ho frequentato il tecnico tra il ’90 e il ’94). L’ho scoperta attraverso i news magazines, tipo l’”Espresso”, o i giornali satirici, tipo “Cuore”, per un desiderio di evoluzione culturale molto personale, individuale.
In questa fase, non ti sei unito a qualche gruppo organizzato?
No, nei primi anni novanta non c’erano gruppi organizzati, dichiaratamente politici, la mia è stata un’esperienza individuale, tutt’altro che collettiva. C’erano dei ragazzi più grandi nella mia scuola, che facevano riferimento al Centro di interesse giovanile, ma io me ne sentivo un po’ distante. Tuttavia sono stato più volte rappresentante del Comitato studentesco, di classe, rappresentante di istituto, del Distretto scolastico. Solo successivamente mi sono avvicinato a gruppi esterni organizzati.
Ricordi qualche insegnante del Tecnico, con cui facevi dei discorsi non solo scolastici?
Ricordo il prof. Doria, di Galatone, che era di centro-destra, ma con cui si discuteva bene, insegnava Economia e Diritto. Gli altri erano del tutto refrattari ad ogni tipo discussione, avevano poca voglia di fare scuola, spesso non venivano neanche in classe per fare lezione. Col prof. Doria si riusciva ad avere un confronto stimolante, sebbene da parte mia e dei miei compagni ci fosse molta acerbità, perché eravamo giovani, molto immaturi, ragionavamo per luoghi comuni. Come al solito, in classe c’era chi aveva voglia di discutere e chi invece ne approfittava per saltare le interrogazioni.
Un altro professore interessante, per me, è stato Franco Serra, professore di lettere delle superiori. Lui era un moderato di sinistra, mentre io avevo come riferimento la sinistra radicale. Il confronto-scontro avveniva su questo piano. C’era sicuramente una certa stima reciproca tra di noi. L’infervorarsi della discussione politica e sociale sui banchi di scuola mi ha incoraggiato molto, ne uscivo sempre più motivato, elettrizzato…
All’esterno della scuola che cosa facevi?
Mi sono iscritto al PDS nel 1992 – è stata l’unica tessera di partito – ma già l’anno dopo me ne sono uscito. L’allora segretario di partito era Tommaso Moscara, ed io entrai a far parte della sezione giovanile. In realtà, di giovani ce n’erano ben pochi, miei coetanei nessuno. Io mi accostai al gruppo degli adulti, almeno dieci anni più grandi di me. Ricordo la puzza di sigarette nell’ala dei vecchi, si fumava molto. Ricordo un dibattito tra giovani socialisti e giovani del PDS, a cui accettai di partecipare, sebbene non avessi gli strumenti per affrontare un incontro del genere, infatti rammento ancora l’evento con grande vergogna. Allora era scoppiato il caso “Mani pulite” e non si parlava di altro, l’incontro era infatti incentrato su questo.
Nient’altro?
No, me ne uscii proprio perché mi mancava lo stimolo a rimanere. Si discuteva, si discuteva, ma io avevo bisogno di fare delle cose. In realtà non me ne sono uscito, ho lasciato morire la cosa. Mi interessava fare un percorso nella società civile. Mi accostai, superando i miei pregiudizi, al Centro di interesse giovanile.
Me ne vuoi parlare?
Sì. Ricordo che il Centro era diretto da Enzo del Coco, Apollonio Tundo e Dino Valente. La sede era di fronte alla chiesa di Santa Caterina. Ma presto fu spostata in via Marche, dove il Centro confluì, confondendosi, nel Centro Sociale Autogestito “Giovani in campo”, di cui fui uno dei maggiori promotori. Era una struttura nata sotto la Legge Vassalli-Jervolino sulle prevenzione alle tossicodipendenze, finanziata dal Comune di Galatina (la Giunta di allora era democristiana e socialista) credo nel 1993. Il Centro funzionò a pieno regime solo nel 1994. Facevo l’ultimo anno di ragioneria, feci un gran lavoro all’interno delle scuole, riuscii a coinvolgere molti ragazzi, sfruttando anche i miei incarichi di rappresentante d’Istituto e del Distretto. Me ne andai da Galatina quando il Centro chiuse, tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995, non ricordo bene.
Chi decise il nome di questo Centro, Giovani in campo?
Per me era un nome terribile, roba da miglioristi! Credo che lo abbia deciso Enzo Del Coco e Paolo Tundo. Tundo lavorava nel reparto infettivi dell’Ospedale di Galatina e si era avvicinato al Centro. Una delle battaglie del Centro fu quella in favore dei sieropositivi. C’era una struttura nuova, una nuova ala del reparto infettivi, mai entrata in funzione, una delle tante cattedrali nel deserto dei regimi democristiani del Sud Italia. Un movimento di persone sorse intorno al problema dell’apertura del nuovo reparto. Non ricordo bene la questione, perché ci furono dei problemi di comunicazione, nel senso che si sovrapposero le comunicazioni: quella del Centro di interesse giovanile e quella del Centro sociale. Il Centro sociale era una struttura gestita dal Centro di interesse giovanile, e quindi faceva un po’ specie che il Centro sociale operasse autonomamente; ma in effetti era autonomo, perché in esso si erano aggregate forze, energie nuove che avevano voglia di esprimersi al di là del Centro di interesse giovanile, che era un’associazione con una sua linea politica ben definita. Non tutti i ragazzi del Centro sociale avevano intenzione di aderire al Centro di interesse giovanile.
Che differenza c’era tra le due strutture?
C’era in primo luogo una differenza di approccio ai problemi. Il Centro sociale Giovani in campo aveva iniziato a funzionare grazie a un diverso modo di fare politica e di intervenire sul sociale, mentre il Centro di interesse giovanile era legato al movimentismo di sinistra e ai suoi retaggi sessantottini e settantasettini, aveva una chiara connotazione politica, sebbene alcuni dei suoi membri dichiarassero di volersene tenere fuori. Ma la cosa non era chiara, dava a tratti l’impressione di essere un po’ capziosa e strumentale. Ad un certo punto c’è stata una frattura tra me ed Enzo Del Coco, perché la stampa locale vedeva in me il punto di riferimento del Centro sociale, chiamavano me per avere notizie. Enzo si sentiva scavalcato nel momento in cui i giornalisti mi interpellavano. Insomma, chi aveva fatto nascere il Centro sociale, se lo vedeva sfuggire di mano. Credo che ci sia stata una frattura anche all’interno del Centro di interesse giovanile.
Che tipo di frattura?
Una frattura tra Apollonio Tundo da una parte ed Enzo Del Coco, Dino Valente e Daniela Vantaggiato dall’altra, una frattura politica. Questi accusavano Apollonio di voler essere egemone, di fare politica partitica, mentre in teoria non se ne sarebbe dovuta fare. Era in sintesi un gran porcaio, tutti dicevano che non si doveva fare parte di schieramenti, poi in realtà ognuno di noi (me compreso) aderiva a questo o quel progetto partitico, a seconda dei casi, con grandi sensi di colpa, con ingenuità o con malcelato interesse. L’unico che peccava di onestà era proprio Apollonio, il solo che non faceva mistero della sua fede partitica.
Era vietato fare politica?
Sì, per loro era vietato fare politica nel Centro sociale, mentre tra i giovani c’era un fermento fortissimo, una voglia di fare politica, di parlare di questioni attuali e meno attuali, che non piaceva ai grandi… Volevano tenere tutto su un terreno molto più vago, meno definito, il che, visto col senno di poi, direi che era giusto; ma allora le cose stavano diversamente.
Voi giovani eravate, dunque, dalla parte di Apollonio Tundo?
In un certo senso sì, anche se Apollonio cercava di tenersi un po’ fuori dal Centro, proprio per il fatto che lui non si nascondeva, non poteva farlo, nessuno voleva mettere un’etichetta partitica su una struttura che in fondo era comunale, Apollonio in primis. Noi, in realtà, eravamo dei reazionari e facevamo delle gran cazzate, grazie a Dio!
Vuoi spiegarti meglio?
Quando ci si avvicina alla politica a diciassette, diciotto anni, per comodità, ci si fa carico di un bagaglio di pregiudizi, di una zavorra culturale, dalla quale solo col tempo ci si riesce a liberare. Se vuoi, questo è anche il bello dell’essere giovani. L’esperienza del Centro Sociale mi è servita moltissimo, mi ha fatto capire molte cose, mi ha insegnato a relazionarmi con gli altri, a masticare la politica, a capire il valore della parola “responsabilità”, a esser capace di rivestire il ruolo di leader sia nell’esperienza artistica che nel lavoro di “tutti i giorni”.
Per riassumere, nel Centro di interesse giovanile c’erano due anime, da una parte quella politica di Apollonio Tundo, dall’altra quella apolitica di Enzo Del Coco, Dino Valente ecc…
Sì, a un certo punto a noi non interessava più questo contrasto e ci siamo sentiti fuori dal Centro di interesse giovanile. Noi eravano il Centro sociale, e basta.
Che cosa è avvenuto nel rapporto fra di voi?
Non ricordo bene, ma credo che ci sia stato addirittura uno scontro fisico tra me e Enzo Del Coco. Era la concretizzazione di uno scontro generazionale. Enzo aveva questo di positivo: riusciva a essere concreto sui progetti, era pragmatico, coinvolgeva molte persone, ma nello stesso tempo lasciava poco spazio alle nuove leve, alla nuova creatività, al nuovo modo di vedere la politica. Incarnava un tipo di politica fatta coi ciclostili, la politica di rottura che si fa nelle piazze con le manifestazioni. Enzo voleva creare un movimento che superasse gli sbarramenti ideologici e raccogliesse tutte le forze della società civile, anche quelle cattoliche, ma il modo in cui intendeva fare ciò era cattolico nel metodo, concedeva troppo… Il Centro andava perdendo la sua matrice non dico di sinistra, ma laica. Noi avevamo un altro approccio, o perlomeno volevamo averlo.
E cioè?
Volevamo fare cose altrettanto concrete, muovendoci però nell’ambito della creatività, pur rischiando continuamente di risultare ingenui: anche questo, ripeto, vuol dire essere giovani! Abbiamo fatto funzionare il Centro sociale. C’era una sala di prove insonorizzata, dove venivano a suonare diversi gruppi, poi la sala ricreativa, la biblioteca. Facevamo corsi di teatro, di fotografia e molte altre cose… ci sentivamo elettrizzati, sperimentavamo lo stare bene insieme. Era diventato un bel Centro, la gente ci veniva, si mettevano in pratica, a Galatina, nuovi modi di comunicazione e di relazione sociale.
Da quanto dici capisco che le attività erano tutte interne al Centro sociale…
No, vi erano anche attività esterne, per esempio organizzammo un seminario col Centro sociale di Lecce, un incontro sul tarantismo con George Lapassade e don Pippi Tundo. Eravamo molto sensibili ai temi ambientali, alla tutela dei diritti degli animali, avevamo adottato molti cani randagi del vicinato, li ospitavamo all’interno del Centro sociale. Facemmo anche delle manifestazioni a Galatina in occasione delle lotte per l’apertura del reparto infettivi dell’Ospedale di Galatina. Ecco, a proposito di questa battaglia: da una parte si voleva che il Centro sociale restasse ai margini delle politiche del paese, dall’altra però su determinate questioni non solo potevamo, ma dovevamo esprimere delle posizioni anche radicali, la cosa era un po’ fumosa, non era chiarissima. Talvolta se intervenivamo nelle beghe cittadine, ci si rimproverava di tradire il mandato del Centro sociale, quando invece faceva comodo le iniziative dovevano essere firmate ora dal Centro sociale, ora dal Centro di interesse giovanile, oppure da tutte e due le sigle insieme. La cosa diventava strumentale. C’era molta confusione. E c’era molta immaturità da parte nostra.
Avevate dei rapporti con altri centri sociali?
A Lecce c’era il Centro sociale “Reale Stazione Ippica”, andavamo spesso a trovarli, loro venivano di meno a Galatina. A Galatina venivano dai centri sociali di Cutrofiano (il “Gaba Gaba”), di Guagnano e poi altri che non ricordo. Erano centri sociali occupati, autogestiti, avevano una chiara connotazione politica, che noi non avevamo, noi eravamo un ibrido. Volevamo essere come loro, ma non ne avevamo la possibilità, un po’ per il fatto che comunque eravamo un’appendice del Comune (di qui il controllo politico che gli adulti del Centro d’Interesse esercitavano su di noi), un po’ perché noi ragazzi venivamo da famiglie piccolo o medio borghesi. Non so quanti di noi avrebbero fatto un’occupazione, sarebbero senza dubbio intervenuti i genitori. Il controllo sociale era fortissimo, non eravamo persone libere, eravamo impauriti da esperienze che avrebbero potuto superarci. Eravamo sempre con due piedi in una scarpa. Quanti di noi avrebbero avuto il coraggio o la possibilità di andare a dormire in un reparto di sieropositivi? I nostri genitori non ce lo avrebbero permesso. I più grandi sì, potevano farlo, e su questo c’era un ricatto degli adulti del Centro di interesse giovanile (<<noi facciamo cose che voi giovani non fate>>), che era un modo per attestare una sorta di egemonia. Noi ragionavamo su un altro livello, quello culturale: corsi di teatro di fotografia, da bravi ragazzi. Adesso dico che eravamo dei reazionari, degli idealisti.
Sul tema della droga, che cosa faceste?
A Galatina, il fenomeno della droga stava scemando rispetto agli anni Ottanta. C’era meno uso di eroina, i viaggi della droga in Viale Japigia, a Bari, non si facevano più. Quando avevo quindici sedici anni, ricordo che dalla piazza partivano comitive di giovani per Bari, per rifornirsi di eroina. C’erano i postumi di quelle situazioni, il problema dell’AIDS che cominciava a farsi sentire.
Vuoi segnalare qualche altra problematica di cui vi occupaste?
C’era il fenomeno degli sbarchi sulle coste adriatiche degli Albanesi, quando io mi ero appena avvicinato al Centro di interesse giovanile. Proprio in piazza Alighieri era stato approntato un centro per l’accoglienza degli Albanesi. Noi giovani ci occupammo molto della questione.
Dopo l’esperienza del Centro sociale a Galatina che cosa hai fatto?
Nel 1995 sono partito per Cesena, dove ho cominciato la mia esperienza teatrale, poi sono andato a Bologna, dove ho lavorato nei centri sociali e in varie associazioni come operatore culturale o come responsabile bar stipendiato, e non sono più tornato a Galatina, se non in modo molto saltuario, d’estate e durante le feste comandate. Personalmente, pur lavorando all’interno dei centri sociali, sono stato sempre molto critico nei confronti del centrosocialismo.
Che cosa pensi dell’attuale realtà dei giovani a Galatina?
Pessima, penso che Galatina sia un paese morto, non trovo nessuno stimolo, è una città che si sta imborghesendo sempre di più.
Non hai intenzione di tornare?
Per ora, proprio no.
Ma se tutti se ne andassero via…?
Questo è il pensiero che affiora sempre, ma uno pensa al proprio percorso. Quando mi sono allontanato da Galatina, ho fatto un discorso relativo al mio percorso individuale, avevo bisogno di pensare a me stesso e a una mia realizzazione personale, che Galatina non poteva darmi, neanche come possibilità. Dal punto di vista artistico era proprio impossibile esprimersi, anche per una questione geografica. Qui, con chi dialoghi? Del resto, quello che mi arriva da Galatina, come il discorso sul tarantismo per esempio, non mi interessa minimamente.
Del cosiddetto “rinascimento pugliese” che cosa pensi?
Credo di non poter esprime un giudizio, manco da troppo tempo per poterne azzardare uno.
Ma noti qualche differenza rispetto a quando, dieci anni fa, sei partito?
No, veramente, nessuna novità. Credo che nessuno spinga perché ci siano delle novità.
Credi che a Galatina si potrebbe riproporre un’esperienza come quella del Centro sociale del 1994?
Si potrebbe, se si facesse una scelta di campo ben precisa. Per esempio, tanti paesini emiliani stanno aprendo delle Biblioteche e le fanno funzionare. Io, con la mia associazione culturale, forse andrò a gestire un Caffè Letterario all’interno del Centro culturale di San Lazzaro, che è un’esperienza simile a quella di Casalecchio di Reno dove c’è il Centro della conoscenza: queste sono delle piccole sale-borse. In piazza Nettuno a Bologna c’è la Sala Borsa che è il centro culturale principale della città, l’accesso è libero a tutti, qui c’è un’emeroteca, una biblioteca, un centro internet, e ancora librerie, ristoranti, bar… E’ un posto molto frequentato. Pensa che c’è qualcosa di simile anche a Casalecchio di Reno, un paese più o meno come Galatina, in cui vengono organizzati incontri, dibattiti, mostre. Il sindaco mi ha riferito che il Centro ha una frequentazione media giornaliera di 800 persone. A Galatina abbiamo il Palazzo della cultura, non so come sia gestito, ma se funzionasse in questo modo, ciò sarebbe un passo in avanti. Si tratta, a mio avviso, di promuovere sinergie tra associazioni e enti comunali, provinciali e regionali. Io lavoro in questo modo nella mia realtà. Penso che a Galatina si potrebbe proporre una cosa del genere. Spesso sento obiettare: “Eh sì, ma tu vivi in una regione che ha un passato di un certo tipo alle spalle, arcinota per la sua tradizione di buona amministrazione, attenta ai fenomeni culturali più innovativi, con delle risorse ..”. Sì, è vero, come è pur vero che i complessi di inferiorità non portano da nessuna parte, se io ogni volta che mi metto in testa di fare qualcosa mi dovessi lasciare paralizzare da limiti e dubbi, concluderei molto poco. Per esempio quando decido di scrivere un racconto non dico: eh, ma che posso mai scrivere io, quando mi hanno preceduto personaggi illustri come Pier Paolo Pasolini, Pier Vittorio Tondelli, John Fante, che hanno sicuramente scritto pagine imparagonabili alle mie…? Bisogna credere molto in se stessi e bisogna credere che le difficoltà siano il bello del gioco, ciò che lo rende intrigante e meraviglioso. E fantasioso.
[Gioventù salentina, Edit Santoro, Galatina 2007, pp. 109-124]