Dovevo dare fondo a tutte le mie risorse per farmi accettare, senza temere le conseguenze di una decisione azzardata. Ho detto: <<Se qui non c’è nessuno che sappia in quale paese ci troviamo, allora è necessario andar fuori e chiederlo per strada al primo che passa>>. A queste parole nessuno si è scomposto. Il bidello con un movimento del capo si è rifiutato di accompagnarmi fuori, senza allegare alcuna giustificazione, come se il suo rifiuto avesse delle ragioni così palesi che non era necessario parlarne. Ma io, ero o non ero il professore? Ho intimato a tutti di seguirmi, ma nessuno mi ha seguito. Se fossi rimasto lì, avrei fatto una figura meschina, e mi sarei sentito perduto dinanzi ai miei allievi. La decisione era presa: uscire dall’aula subito, con o senza gli studenti e a dispetto di quel bidello antipatico e presuntuoso. Se non mi avessero seguito, avrei scritto una nota sul registro e deferito al dirigente amministrativo il bidello irrispettoso. Ho risalito i pochi gradini e sono uscito all’aperto. Avevo l’impressione che fuori fosse calata la notte. Distante da me non più di cinque metri, un uomo alla guida di un trattore avanzava, illuminando coi fari accesi un campo arato di fresco. Veniva verso di me. Quale migliore occasione per rivolgergli quella domanda: <<Come si chiama questo posto, in quale paese ci troviamo?>>. Dietro di me il bidello, rimanendo sulla soglia, mi richiamava in classe, ed io sapevo che mi rimproverava per aver abbandonato da soli gli studenti, cosa grave per un insegnante. <<Mi lasci in pace>> gli ho gridato voltandomi, <<non vede che sto interrogando questo signore>>, come se questa interrogazione fosse parte integrante della mia funzione. Mi rigiro verso l’aratore per avere risposta, e vedo che stava andando via sul suo trattore, lasciandosi dietro un ampio e profondo solco nella terra nera. Era inutile richiamarlo, pensava ai fatti suoi e non sarebbe tornato. Per fortuna sopraggiungeva una signora elegante, avanzava verso di me a passo lento, ed avrei avuto tutto l’agio di interrogarla. Mi trovavo in campagna, ma quella donna era così ben vestita che sembrava venire dalla città e che fosse lì solo di passaggio. Il bidello tornava a incalzarmi, più fastidioso che mai. Ho chiesto alla donna: <<Scusi, Signora, può dirmi dove siamo?>>. Non dimenticherò mai il suo sorriso, i suoi denti perfetti, le sue labbra rosse e il suo incarnato, le guance rosee… Era proprio una bella donna. Che cosa voleva dirmi? Sorrideva per il supposto mio tentativo di approccio oppure dietro il sorriso nascondeva il compatimento per un povero pazzo abbandonato a se stesso che faceva domande insensate? Non lo so. So solo che anche lei non mi rispose, mi voltò le spalle e andò via. Allora, visto che il bidello non cessava di richiamarmi, decido di tornare in classe. Ma a quel punto avevo le idee molto chiare, sapevo cosa dire ai miei allievi indisciplinati, li avrei stupiti una volta per tutte con una dichiarazione risolutiva, appena varcata la soglia dell’aula. Ero sulla soglia, accanto al bidello, e guardavo i miei allievi, pronto a dichiarare quanto avevo appreso, attento a non farmi scoraggiare dalla loro disattenzione e noncuranza. Era il primo giorno di scuola e questo era il momento di farsi valere. Scesi due gradini e dissi a gran voce: <<Questo è un racconto di morte!>>, e volevo indicare proprio un genere letterario ben codificato, come esiste il racconto giallo, il fantastico, il rosa, eccetera; il che avrebbe dato autorità alla mia presenza in quel luogo. Credevo di aver trovato il bandolo della matassa, il mezzo necessario per avvincere alle mie parole l’attenzione degli apatici studenti che mi erano toccati in sorte. Se quella era l’unica risposta sensata, come potevano non starmi a sentire? E invece mi guardano senza battere ciglio, con una indifferenza che per contrasto faceva risaltare il mio grande entusiasmo, che ne veniva avvilito e mortificato.
Questa fu l’ultima reazione dei miei alunni che potei constatare. Poi sentii sbattere dietro di me la porta; era certamente il bidello, deciso a non farmi più uscire dall’aula, perché lui mi ci aveva accompagnato, ma il suo compito era finito lì, non poteva mica badare ai miei studenti. Mi voltai indietro e vidi la porta definitivamente chiusa.
In quel preciso istante mi svegliai.
***
In albergo
Avrei dovuto rifiutarmi di pagare il prezzo esorbitante richiesto per una notte in hotel, ma ormai avevo parcheggiato la mia lussuosa automobile davanti alla reception, e ora non mi andava di fare il taccagno mettendomi a discutere per qualche lira in più. Il receptionist sembrava contare proprio sulla mia debolezza. Del resto, come non vedere che quello era un albergo di alta classe? Guardando in alto, lo vedevo adagiato mollemente sulle colline tra il verde del declivio, le cime dei monti più alti ed il cielo. Pago e sono dentro. Ed ecco la sorpresa: benché avessi pagato così tanto, non c’era nessuno che si degnasse di accompagnarmi nella mia camera. Era previsto che sarei giunto a destinazione grazie a un meccanismo automatico, lo stesso che mi aveva trasportato velocemente dalla hall al corridoio interno, su cui si aprivano le porte delle camere, una delle quali, presumevo, era la mia. Pertanto, se tutto era predisposto per accogliere in quel modo l’ospite, di che cosa avrei dovuto preoccuparmi? Tuttavia, nessuno mi aveva comunicato il numero della mia stanza. Di sicuro non ve n’era bisogno, perché le porte non erano contrassegnate da nessun numero. Dovevo fare da me.
Provo ad aprirne una: eccomi in una grande sala da pranzo ben illuminata, dove decine di persone gomito a gomito come in un’affollata mensa cittadina mangiavano chine sui piatti.
Provo ad aprirne un’altra: stessa scena.
Un’altra: uguale.
Penso di essere su di un piano dell’hotel destinato al servizio ristorante. Che il meccanismo automatico sia stato predisposto per farmi pranzare prima di recarmi in camera? Ma io non ho voglia di pranzare e decido di lamentarmi col direttore per il pessimo trattamento che mi si sta riservando. Preso da una certa stizza, faccio irruzione nella stanza del direttore, che vedo seduto dietro una grande scrivania. E’ piccolino come un cinese, anzi ha proprio una faccia orientale, gli occhi a mandorla, gli zigomi sporgenti, il sorriso stereotipo. Se ne sta lì impalato, non mi guarda e non dice niente, mentre io gli dico e gli ripeto che ho pagato per avere una camera tutta mia e non c’è nessuno che mi sappia indicare dove sia. Il direttore non dice né a né ba e così mi fa salire il sangue al cervello. Mi avvicino e lo scuoto con una mano. Mi accorgo che non è un uomo, ma un manichino. Capite, quel posto aveva per direttore un manichino! Non ne posso più, mi sento preso in giro da chi gestisce l’albergo e se ne sta dietro le quinte divertendosi a mie spese. Dal momento che il direttore è un manichino, gli do una sberla, ben sapendo di non fargli male, e quello si spezza in tre, quattro parti, che cadono per terra senza fare rumore. Di che cosa è fatto? Non è di plastica né di pezza, sembra carne priva di compattezza e incapace di opporre qualche resistenza, come la polpa molle che i macellai maneggiano prima di tagliartene delle fette. Cerco qualcuno per avere delle informazioni su quel luogo, per capire cosa ci sia dietro questo strano modo di accogliere i viaggiatori. Ma già mi viene il sospetto che tutta le persone viste prima siano nient’altro che manichini. Ritorno allora nella sala da pranzo, senza incontrare nessuno nel corridoio: vedo un omaccione pelato e nerboruto che mangia seduto e chino sul piatto, come gli altri; ma si vede bene che in piedi sarebbe alto almeno due metri e peserebbe almeno un quintale e mezzo, uno che ti potrebbe schiacciare come un moscerino. Mi gli avvicino e gli do un pugno in faccia. Già lo sapevo che lo avrei ridotto in pezzi, come il direttore. Non ho più dubbi, non ho più nemmeno bisogno di visitare le altre sale. Ritorno nel corridoio e, mentre cerco l’uscita, mi si parano davanti due inservienti, due belle fighe seminude che sembrano venir fuori dal un nigth a luci rosse. Le sistemo con due calci, così, giusto per avere un’ulteriore riprova di quanto avevo appreso. Alla reception chiedo la mia automobile e subito mi vengono date le chiavi, ma vedo davanti a me non più la mia auto lussuosa, ma una Mini minor piuttosto usurata. So che nel cambio sto perdendo molti soldi, ma non mi importa, faccio finta di riconoscerla come mia, pur di andar via quanto prima. Metto in moto e cerco l’uscita. Sono vicino al cancello d’uscita, ma a quel punto mi chiedo : <<Ma dove sto andando?>>. So che è necessario scrivere quello che ho visto, ma per farlo devo rimanere lì, perché fuori da quel luogo nulla avrebbe più senso. Decido di rimanere, in fondo sono io il più forte e nulla mi fa veramente paura. E sarei rimasto per sempre lì, a scrivere queste cose, se improvvisamente non mi fossi svegliato.
[Vita nuova e altri racconti, Edit Santoro, Galatina 2010, pp. 57-64]