Vóscele viene così a essere un omaggio commosso a una cultura e a un modo di vivere (spesso molto duro e nello stesso tempo dignitoso) ormai scomparsi, ma con i quali l’artista Fracasso continua a confrontarsi in atti non nostalgici né, tanto meno, passatisti, ma luminosi nel loro essere ponti costruiti tra passato e presente.
La ciotola di pietra chiara è, in tal modo, ciotola piena di olive e conca in cui i frutti maturi si raccolgono (o vengono accumulati), le olive-pietre sono, ovviamente, i frutti stessi dell’olivo e, anche, vere e proprie scaglie di luce, l’opera nella sua interezza riunisce in sé per un verso la naturalità della pietra-conca e dell’oliva-frutto, per altro verso l’atto culturale di offrire ai propri vicini un piatto di olive nere quando il vicinato (la ghetonìa nei paesi della Grecìa salentina) era comunità vivente e solidale – e colpisce che una conca di pietra calcarea si faccia piatto offerto al vicinato, che un piatto di olive nere rammenti a chi guarda una conca di pietra, ma questo accade perché la pietra è, in Terra d’Otranto, materia che vive, fin dalla cosiddetta preistoria matrice di pensiero, di cultura, di simboli oltre che concretissimo materiale per fare oggetti d’uso e per costruire. (E, devo confessare, è bellissima la sensazione che si ha quando le dita mescolano le olive-pietre, bellissimo sentirne il tintinnare tra di loro e lo scorrere, il muoversi nella conca-vassoio, così che quest’opera d’arte non è mai statica, ma dimostra, proprio nella sua anima di pietra vivente, di essere in continuo divenire: accostata a una finestra riceve e riflette la luce cangiante nell’arco della giornata, ma si potrebbero anche togliere alcune pietre-vóscele, lasciare la conca-vassoio vuota a metà, una manciata potrebbe essere posata accanto e comunque fuori di essa allargando così lo spazio esperienziale e visivo…)
Ma le Vóscele di Pasquale Fracasso sono anche indiretta allusione alla tristissima epidemia di xylella fastidiosa che continua a flagellare gli olivi salentini i quali, è bene sottolinearlo con forza, non sono (o non erano) soltanto un elemento importante dell’economia agricola della regione, ma erano diventati tutt’uno con l’identità stessa dei Salentini. Che un artista abbia lavorato con pazienza infinita una a una le piccolissime pietre che sarebbero diventate le “olive” nere accese di luce, ch’egli abbia sagomato e levigato una pietra calcarea per trarre anche da essa luce significa voler salvare e preservare una memoria e una cultura, un’identità (ma quando parlo d’identità salentina tengo sempre a ribadire che non si tratta MAI di un’identità escludente e reazionaria, ma aperta e ospitale).
È da una prospettiva di “pensiero meridiano”, allora, che si può interpretare questo lavoro recente di Pasquale Fracasso: la pianta dell’olivo vi è presente come idea e come ovvia (e necessaria) suggestione ed essa è pianta mediterranea per eccellenza, antichissima e carica di simboli (quello della pace mi appare di un’urgenza oggi assoluta, ma anche il suo paziente, lento crescere, il suo attorcersi ai passaggi del vento, il suo generoso fruttificare possono ancora parlarci – senza dimenticare mai e poi mai la fatica dei contadini e delle contadine, spesso sfruttati e umiliati); la sua drupa, nobile cibo e pure frutto capace di produrre il preziosissimo olio (anch’esso portatore di simboli), proprio nel senso di raccolta/raccolto e di offerta che gli ha voluto conferire Pasquale Fracasso in questo lavoro, dà soltanto inizio a una serie di riflessioni e di considerazioni che, legando il Salento a tutte le rive del Mediterraneo e unendo tra loro i diversi tempi della storia possono diventare un rizomatico proliferare d’immagini e di suggestioni – per questo scrivevo di Vóscele come di un ponte costruito tra noi e quello che siamo stati, ma, anche, tra noi e quello che vorremo essere.