Prefazione a un libro di poesie inedite di Aldo D’antico, Erva te jentu, in dialetto parabitano

Scercule, per definizione dello stesso autore, sono queste poesie dialettali, ossia schegge, tranche de vie, bozzetti, episodi minimi di vita popolare. Si tratta però di un dialetto d’antan, ovvero il dialetto stratificato dall’uso dei parlanti nati a metà del secolo Novecento, come il nostro autore, e nasce da una esigenza interiore, come dice nella programmatica lirica Tialettu, di scrivere “quattru parole te na fiata cuntandu ne la lingua te li siri”. Questo “tialettu” è quindi poco o punto corrispondente a quello parlato dalle nuove generazioni. D’altro canto, la sociolinguistica ci insegna che la lingua non è una struttura fissa e immutabile, bensì un organismo vivo destinato a cambiare perché soggetto a diverse variabili, non solo quelle diacronica e diatopica, ossia in rapporto al tempo e allo spazio, ma anche quella diamesica, dipendente cioè dal mezzo utilizzato (il dialetto usato in versi è diverso da quello in prosa, ancor più da quello parlato), quella diastratica, che dipende dallo stato sociale dei parlanti, e quella diafasica, che si colloca in funzione del messaggio che si vuol dare e dei destinatari dello stesso, diremmo della fruizione della lingua. L’autore ha scelto di cantare nella “lingua te lu tata” sentimenti,  gioie e dolori, sorrisi e indignazione, attraverso una versificazione sciolta, diretta e immediata, vicina al naif, lontana da esercizi di stile e intellettualistici estetismi, perché invece diretta ai suoi simili, ai braccianti, agli operai, i poveri cristi che lavoravano “te sule a sule” (e vengono in mente certe stupende immagini di Enzo Fasano, conterraneo maestro della tarsia lignea, che raffigurano con crudo realismo la vita dei contadini e dei cavamonti di un tempo), alle umili donne del popolo: “piju la pinna, quattru-cinque carte e scriu li versi pe’ la gente mia”, afferma.

Il tono è in bilico fra il serio e il faceto. Certamente la lingua sciolta conferisce un valore icastico ai versi. Il poeta tradisce in via liminare la sua matrice proletaria, egli viene dal popolo e al popolo restituisce genuinamente toni, accenti, odori e colori che promanano dalla sua formazione, radicata nella terra e nel mondo degli umili, in quel Salento contadino per cui si fa latamente laudator temporis acti.

Troviamo allora il lamento dell’esule nella lirica Parabbita, in cui si esprime la nostalgia di chi è lontano dalla propria dimora e anela al ritorno. Nella lirica Osci nu’ bbegnu si rivolge ai suoi genitori nel giorno dei defunti scusandosi perché in quel giorno non andrà a trovarli poiché il cimitero sarà invaso dai visitatori che si ricordano dei propri defunti solo nella ricorrenza del due novembre mentre il poeta si reca al camposanto quasi tutti i gironi quando, favorito dalla pace e dal raccoglimento, può avere un dialogo più intimo con i propri congiunti. Il poeta ha in uggia il culto dell’apparire, l’etichetta e il blasone, gli effimeri simboli di un notabilato provinciale vuoto e parassitario. È lo stesso poeta che sollecita la moglie, la quale dopo molti anni di matrimonio si è lasciata andare ad una grigia monotonia che si riflette nell’aspetto dimesso, a ravvivare il suo spento splendore, quello della ragazza di cui un tempo si è innamorato. Anche in questo modo, attraverso la cura del proprio corpo, una donna del popolo può prendere una rivalsa nei confronti dei propri natali e del destino che l’ha confinata all’ultimo piano della scala sociale. E se il destino non può cambiare, perché “a qquai stamu nui, a ddhrai l’addhri a qquai li poareddhri, a ddhrai li ricchi”, dice, “te ci mundu è mundu e nu cangia mai “, tuttavia nessuno impedirà ai poveri di amare e sognare un futuro migliore; per questo, il poeta si rivolge alla propria compagna: “me sentu pizzacare ‘ntra ‘llu core ogni fiata ca pensu all’ occhi tua”. L’amore di un tempo cioè è sempre vivo e più forte che mai.

Come si diceva, il tragico e il comico si fondono in questa raccolta. Essendo l’autore un appassionato difensore dell’eredità della Magna Grecia, si potrebbe paragonare la sua arguzia stilistica a quella di un Rintone di Siracusa (323 a.C. – 285 a.C.), “piccolo usignolo delle muse”, come lo definì la poetessa Nosside di Locri Epizefiri,  e che fu il fondatore di quella che i latini proprio dal suo nome chiamarono fabula rhintonica, ossia una parodia dei grandi miti che per contrasto rispetto ai toni enfatici e altisonanti delle tragedie, faceva ridere di gusto gli spettatori.  E proprio dalla Magna Grecia veniva il genere della farsa fliacica. Oppure ancora a quel Leonida di Taranto (330 a.C.- 260 a. C. circa), non solo per il crudo realismo dei suoi epigrammi, che descrivevano un mondo di umili e pitocchi di cui il poeta stesso faceva parte, ma soprattutto per quei toni sorridenti ed amari delle sue liriche. L’autore può aver maturato dalla satira latina quell’italum acetum, ossia quella arguzia tutta osca, che rendeva sapide le poesie di Orazio, di Giovenale, di Marziale.  Un sermo plebeius, il suo, sempre per dirla con i latini, certo molto lontano dal sermo doctus. Egli non ama le storture del mondo, le sue corruzioni e infamità (“ci rubba, ci ccite, ci se ‘mbriaca: la storria sa utata sutta susu”), vedi il duro atto d’accusa alla Politica e ai suoi personaggi, gli ‘mbroia ‘mbroia”, e il suo disprezzo per la tigna, ovvero la tabe che come un sangue putrefatto si raggruma e guasta certi ambienti altolocati. E si fa anche fustigatore di costumi, come in A pizzoca, contro la religiosità di certe donne del popolo, troppo ostentata per non essere falsa, o contro il parvenu, in Cicciu bardatu, ossia colui che, pezzente arricchito, si dà arie da gran signore e parla con la erre moscia come i muscadins, quei giovani francesi del Settecento che si vestivano in maniera alquanto ricercata e per snobismo si comportavano in siffatto modo, tanto che venivano messi in burla; oppure ancora, in Camasci, contro quei perdigiorno che trascorrono le giornate nell’osteria ad ubriacarsi e spettegolare; contro i politici di paese, pronti solo a fottere e a raggirare la legge, oppure contro il monaco corrotto che gozzoviglia e fornica tutto il giorno prima di tornare in convento: a tutti questi tipi da commedia umana va il suo detto: “li ‘ntichi ine ragione, nu ‘nc’ é santi: quandu lu patucchiu se vitte ‘nthra farina se critiu ca è diventatu mulinaru.”

Emerge la forte passione civile dell’autore, filtrata attraverso l’arma spuntata dell’ironia, quest’ultima più di tutto soppanna gli umori della piccola raccolta, ne sostiene l’impalcatura versificatoria, fornisce humus alla poderosa concrezione creativa elaborata dal nostro parabitano aedo.

Egli insomma è lontano dall’ipocrisia e dai compromessi che richiede la moderna vita sociale, si sente vicino agli ultimi, alla semplicità quasi evangelica; la sua adesione personale e letteraria va ai “poviri furesi ca cercane cu tirane la vita”, al simpatico Mesciu Strozzula, “mesciu te palore e de titterri te pruverbi, giraotule e culacchi te ‘ngiurrie, pijangiro e de carcasse”; la condizione delle classi subalterne, le contraddizioni sociali stuzzicano la ribellione del satirico, che si stempera in una dimensione ludica; infatti sempre è il sorriso all’angolo della bocca, come un moderno Marziale (38- 104 d. C.), che attacca il vizio ma in fondo se ne compiace perché sa egli stesso di non esserne immune. Si pensi alla poesia Carne te la carne, in cui la vox populi attesta che lu ‘Ngiccu è figlio del parroco, frutto di una notte d’amore con la bella Lucia, ma interviene l’indulgenza del poeta che assolve il prelato perché “cci bbo faci, puru lu prete è ommu”. E proprio come Marziale, descrive situazioni, personaggi, ambienti fortemente realistici, vicende e dialoghi tolti alla vita di tutti i giorni. Tocca accenti di accorata umanità quando piange la morte dell’umile vicina di casa, la Tunata, presagendo l’ineluttabile destino comune, oppure nella fierezza del campagnolo che sa disdegnare gli agi e i grandi vantaggi della vita dei ricchi, preferendo la vita semplice e genuina e il calore del suo focolare domestico, e sembra riecheggiare il grande Orazio (65 a.C.- 8 d. C.) che, di fronte alle allettanti offerte di Mecenate di trasferirsi in città per diventare poeta di corte dell’Imperatore Augusto, seppe rifiutare, preferendo restare nella serena pace della campagna Sabina, nella sua umile abitazione, parva sed apta mihi. Al poeta poco cale di terreni e investimenti, immobili e lucrosi affari, “nu’ mme ‘nde futtu te le proprietà”, egli ama solo la propria libertà e sa bene che può morire in qualsiasi momento senza darsi pena per quello che potrebbe lasciare ad avidi eredi. Una prece alla Madonna della Coltura, adorata patrona della città di Parabita, alla quale l’autore riserva un sentimento di filiale devozione e la invoca a salvamento dagli squilibri e dalle storture che angosciano i suoi consimili.

Sono solo parole, infine, questi versi, “Erva te jentu”, come nella poesia che dà il titolo alla silloge, “fiatu te tiaulu”, ma per Aldo – Mesciu Masi queste parole hanno più valore dei beni materiali e pur nella semplicità formale hanno vigore, potenza espressiva, restano incise come uno sfraghìs, il sigillo con cui i poeti greci firmavano con il proprio nome i componimenti. Insomma, c’è molto da leggere e meditare.

[Prefazione in Aldo D’Antico, Erva te jentu, Parabita, Il Laboratorio, 2024]

Questa voce è stata pubblicata in Anticipazioni, Avvertenze, Conferenze, Discorsi, Introduzioni, Prefazioni, Premesse, Postfazioni, Presentazioni e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *