di Antonio Errico
Un mestiere è il simbolo di una civiltà, la rappresentazione di una dimensione sociale, economica, soggettiva, collettiva, di benessere, di sviluppo, di progresso. Racconta molte storie, si compone di stratificazioni semantiche, è la sintesi di presente e di passato, una proiezione nel tempo a venire. E’ teoria e prassi allo stesso tempo, conoscenza, passione, sentimento, esperienza e intuizione, razionalità e percezione. Un mestiere è la condizione che costituisce l’espressione di una visione del mondo e della vita. L’ultramodernità e l’ipercomplessità si sono portate via molti mestieri. Con i mestieri si sono spente anche le storie che essi generavano, il linguaggio che elaboravano. Alla civiltà delle macchine, all’impero della tecnologia, si deve pagare un prezzo. Il progresso, in fondo, è fatto anche di questo. Poi a pagare sono sempre le creature. Ci sono mestieri che non s’inventano ma che neppure si riconvertono, perché costruiti fin dall’infanzia, osservando le mani e ascoltando i silenzi di chi di quei mestieri aveva possesso, e poi provando e riprovando a imitarli. Ci sono mestieri che ormai appartengono ad un territorio che confina con il mito. In questo territorio si avventura Giuseppe Albahari con una ricerca che s’intitola “Mestieri del Novecento. Sulle coste del Salento”. Ne ricostruisce l’origine e lo sviluppo ma, soprattutto, ne pone in rilievo il carattere identitario rispetto ad un luogo chiamato Salento, acutamente rilevato da Enrica Simonetti nella sua prefazione.