Vita nuova

La mia camera era perlopiù il luogo in cui si muoveva il mio corpo, come una macchina che non abbia coscienza di sé. Ma fu lì, credo, che incominciai a conoscermi, sia pure in modo del tutto parziale. Confrontavo, infatti, le vicende romanzesche, che andavo leggendo in molti libri, con le mie, e ne traevo spunto per tracciare le prime linee di un discorso su me stesso, non so quanto rispondente al vero. In quel luogo scrivevo le mie poesie. Dovevano essere molto infantili e ho fatto bene, qualche anno fa, a gettarle via insieme a tutte le altre che scrissi dopo. Peccato che non me ne sia rimasta nessuna! Altrimenti, ne darei qui qualche esempio, giusto perché il lettore si faccia un’idea della mia stoltezza. Ma allora tutte quelle parole mi sembravano le uniche ch’io potessi scrivere. Intanto dimagrivo a vista d’occhio, non curavo la mia persona e mi vestivo in modo trasandato, e gli amici che incontravo, mi dicevano: “Che hai?”. Che cosa dovevo rispondere loro, forse che ero innamorato? Me ne stavo zitto e cercavo di farmi vedere in giro il meno possibile oppure mi mettevo addosso una maschera di indifferenza e così nessuno mi chiedeva nulla. Meglio, perché altrimenti avrei detto solo menzogne.

Un giorno Lei mi passò davanti in compagnia della Sua amica, entrambe mi salutarono e io risposi al saluto. Gli amici si accorsero della mia emozione, perché di colpo ero arrossito e qualcuno disse che ero innamorato dell’amica di Lei. Non dissi che si sbagliava, finsi che fosse vero, e tutti rimasero convinti che volessi mettermi con l’amica di Lei, giacché Lei aveva già il ragazzo, e anche glielo andarono a dire, all’amica di Lei, intendo. Perché fui così contento di questa situazione? Forse calcolai che avrei avuto più chance di avvicinarmi a Lei o forse feci qualche altro ragionamento, non so più, ma ricordo che mi compiacqui del fraintendimento generale e della mia simulazione. Sta di fatto che l’amica di Lei ci stava con me, evidentemente dovevo piacerle, me lo fece capire in modo chiaro e limpido, e un bel giorno ci ritrovammo a uscire tutt’ e quattro insieme, io in mezzo a loro con il mio segreto.

Per farvi capire com’era bella questa ragazza che io amavo, non la Sua amica con cui mi ero messo, basti dire che un mio amico un po’ fanatico aveva fatto una lista di ragazze della città, quelle più belle, e in cima alla lista vi era proprio il nome di Lei, tanto che io ho sempre sospettato che anche questo mio amico ne fosse segretamente innamorato.

Accadde che l’amica di Lei, cioè la ragazza con la quale io stavo, partisse per le vacanze in un luogo lontano e io rimanessi solo in città. Lei e il suo ragazzo mi invitarono a uscire con loro come se la mia ragazza fosse con me, perché, insomma, non c’era motivo che io passassi l’estate da solo. Ne fui contento e accettai l’invito. La prima sera che uscimmo tutt’e tre insieme accentuai la mia simulazione, perché lessi una poesia che avevo scritto per Lei, come se fosse stata scritta per la Sua amica, che era in vacanza. E fui talmente spudorato che anche la commentai, spiegando per filo e per segno, come fossi un professore di scuola, che cosa significassero i versi che io stesso avevo composto. Lei mi lodò molto, disse che la poesia era bella, piena di sentimento, e anche lui disse che era bella, piena di amore, ma nessuno dei due sapeva che io l’avevo scritta solo per Lei.

Ormai non facevo altro che mentire. Qualche tempo dopo questi fatti, morì una ragazza che io avevo visto spesso insieme a Lei. Ebbene, scrissi una poesia nella quale parlavo di questa ragazza morta, ma sapevo bene che mi interessavo di costei solo perché l’avevo vista insieme a Lei, in quanto tutto quello che ricadeva nel raggio d’azione di Lei era per me molto importante. Ora solo mi accorgo del grado di abiezione in cui mi ero ridotto, sicché giudico una grande cosa avere scelto di buttare via tutte quelle poesie che trasudavano menzogna e anche un bel po’ di infamia.

Ancor oggi, quando ripenso a quelle vicende, non so spiegarmi certi miei comportamenti, certe scelte, che allora mi parvero naturali o, forse, prodotte dalla dinamica degli eventi. Dopo la morte di questa donna, l’amica di Lei, con la quale io mi ero messo per starLe vicino, mi richiamava a sé, voleva che la raggiungessi nel luogo delle vacanze. Ed io in effetti mi misi in viaggio per raggiungerla. Ma era un luogo molto lontano: come potevo staccarmi da Lei ch’era rimasta in città e che spesso mi invitava ad uscire insieme al Suo ragazzo? No, per nulla al mondo mi sarei allontanato da Lei. Fu così che tornai in città. L’amica di Lei, allora, non appena seppe che non l’avrei raggiunta, mi lasciò, perché capì che non l’amavo. Io allora mi misi a scrivere poesie in cui cantavo il mio abbandono e lamentavo la lontananza della mia donna e l’amore mio non ricambiato. Ma non me ne fregava nulla di essere stato lasciato, coglievo solo l’occasione per scrivere poesie in cui parlavo di Lei, e poi le leggevo in giro, e tutti pensavano che io mi struggessi d’amore per la ragazza che era in vacanza, per la sua lontananza e perché mi aveva lasciato, ma non era affatto così. Fu il ragazzo di Lei a consigliarmi per il meglio: mi presentò una sua amica, a cui forse dovevo piacere; insomma, mi fece da mezzano, e io mi ritrovai con una nuova ragazza, contento di rimanere vicino a Lei e di continuare a vederLa, sia pure simulando, come avevo fatto con la Sua amica.

Per Lei cominciai di nuovo a scrivere poesie d’amore, nascondendomi dietro questa nuova ragazza, e Lei questa volta fraintese le mie parole, le fraintese doppiamente, non solo perché non capì che a Lei erano rivolte, ma anche perché deprecò quella che Le parve la mia leggerezza, in quanto, ai Suoi occhi, avevo finto di amare la Sua amica in vacanza, per abbandonarla alla prima occasione e mettermi con un’altra, la prima che il Suo ragazzo mi aveva presentato; ed ora, per giunta, l’andavo cantando nelle mie poesie. Fu così che con mia somma disperazione mi accorsi che mi evitava e mostrava chiaramente di non volere più uscire con me; fino a quando addirittura mi tolse il saluto.

      Solo allora io capii quanto l’amavo e quanto mi sarebbe mancata.

Per un bel pezzo non mi feci vedere in giro. Ero come un animale malato: me ne stavo nella mia camera, piangevo, per dare sfogo al mio dolore, e leggevo, per alleviare la mia solitudine. Dormivo molto e molto sognavo, non so più che cosa.

Un bel giorno il ragazzo di Lei venne a trovarmi. Con tono affabile e amichevole mi chiese come stessi, e con un candore che per contrasto faceva risaltare l’infamia della mia simulazione, mi disse che sapevano tutto, lui e anche Lei; egli capiva che la mia simulazione non era un gioco,  ma l’espressione del mio amore per Lei – lui non ce l’aveva con me. Io mi schermii, dissi che no, si sbagliava, infatti stavo con l’amica che lui mi aveva presentato. Lui mi rispose che me l’aveva presentata apposta, per scacciare il pensiero di Lei dalla mia mente, che aveva barato pure lui, senza ottenere alcun risultato. Ma Lei ora era molto arrabbiata con me e non voleva più rivedermi, ed era arrabbiata anche con lui, che aveva assecondato la mia simulazione; e allora lui voleva consigliarmi per il meglio, in modo da trovare un rimedio a quella situazione che si era fatta davvero ingarbugliata. Io allora non negai più nulla e gli dissi che era tutto vero, ma che non avevo colpa se mi trovavo in quel pasticcio, e che intendevo uscirne quanto prima, ma a testa alta, evitando di fare delle figuracce. Lui mi disse di non preoccuparmi, che mi avrebbe aiutato, ribadì che non ce l’aveva con me, e disse che io, se volevo, potevo continuare ad amarLa come avevo fatto fin lì, lui non aveva nulla in contrario – non era mica un barbaro con la mania del possesso -, però a condizione che la smettessi con tutte quelle simulazioni che Le davano un gran dispiacere; che La amassi, dunque, semplicemente scrivendo di Lei nelle mie poesie, dal momento che dicevo di essere un poeta; lui glieLe avrebbe lette e chissà che un giorno non mi fosse data l’occasione di riappacificarmi con Lei. Un giorno Le avrei letto personalmente le poesie e anche le prose nelle quali spiegavo così bene il mio amore per Lei. Sperava proprio di farci fare pace. Evidentemente era stato strigliato ben bene da Lei, perché faceva di tutto per scusarsi davanti a me, col fine  – credo – che un giorno non Gliene parlassi male. Poi se ne andò. Penso proprio che doveva considerarmi un gran citrullo!

Ma allora, che cosa io dovevo pensare? Che cosa dire? Conoscevo un unico linguaggio e pensavo fosse quello giusto. Scrissi poesie in cui parlavo di Lei, dicendoLe tutto il mio amore, poesie, che poi divisi e commentai puntualmente; poesie e prose che oggi non mi pento affatto di aver buttato via, qualche anno fa. Ragion per cui a nessuno venga in mente di chiedermele, perché non le ho più e, sebbene un tempo le conoscessi a memoria, ora le ho del tutto dimenticate.

A lungo non la vidi più.

Accadde un giorno che, durante il matrimonio di un amico, all’improvviso, avvertissi la presenza di Lei. Pensate, non l’avevo neppure vista, e già ne sentivo la presenza. Che cos’era questo, se non amore? (così allora pensavo). Cominciai a tremare, sbiancai in volto, presi a sudare freddo e mi sentii venir meno, tanto che dovetti appoggiarmi alla parete bianchissima della sala da pranzo per non cadere. Lei era lì, davanti a me, in compagnia di alcune Sue amiche, e tutte insieme guardavano il mio aspetto trasandato, e parlottavano fra loro, e ridevano, e io non capivo cosa dicessero di me, ma sentivo che mi prendevano in giro. Un amico mi accompagnò in un’altra stanza e mi chiese che cosa avessi. Gli dissi che avevo avuto un malore, che non mi sentivo bene e volevo tornarmene a casa. E così feci. Ritornai a piangere nella mia camera, a disperarmi, sapendo che Lei mai mi avrebbe perdonato, neppure se avessi scritto per Lei la più bella poesia del mondo. Ma se già allora avevo capito che neppure la più bella poesia ai Suoi occhi mi avrebbe salvato, perché non smisi di scrivere versi? Orgoglio, abitudine? Non lo so: fatto è che scrissi per Lei una poesia – che giudicai la più bella fra quante avessi fino ad allora scritto -; e a quella poesia aggiunsi un commento, sperando che Lei lo leggesse e comprendesse della poesia le più riposte risonanze, ognuna delle quali attestava il mio amore per Lei. Le spedii per posta poesia e prosa, ma non ebbi risposta.

Pensai di non vederLa più, perché già il solo desiderio di vederLa mi causava un forte  dolore, il risultato delle mie passate passioni, delle mie menzogne, a causa delle quali tanta infamia mi derivava. Perciò  – ripeto – ho fatto bene a distruggere le poesie e  commenti in prosa. Nessuna spiegazione avrebbe potuto annullare la mia follia. Oh, se già allora, subito, avessi preso questa decisione! Invece no! Pensa e ripensa, alla fine non pensai null’altro di meglio che di scrivere nuove poesie e nuovi commenti, nei quali dichiaravo il mio stato d’animo, come se da lì potesse derivarmi la redenzione o almeno qualche forma di consolazione. Come mi ingannavo!

Finalmente, cominciai a capire, a capire e a tacere. Decisi di non parlare più né di me né di Lei nelle mie poesie, di non piangermi addosso e di non invocare pietà, perché qualunque cosa avessi detto sarebbe stata fraintesa. Avrei parlato delle nuove cose che mi erano occorse, di una nuova materia, che tutti avrebbero ascoltato con piacere, se non altro per sapere come sarebbe andata a finire questa storia. Oh, come anche in questo mi illudevo!

Ecco, dunque, che cosa accadde e che cosa io ne scrissi.

Un bel giorno capitai in un luogo dove numerose mie amiche erano riunite. Costoro pensavano di conoscere bene i miei sentimenti e mi guardavano e ridevano tra loro, esitando a rivolgermi la parola. Finalmente una di loro si fece avanti e mi chiese: “Insomma, dicci un po’: come puoi amare questa donna, da cui fai di tutto per tenerti lontano, e se la incontri rischi di svenire?”. Allora io risposi che l’amavo ugualmente, che non mi importava affatto vederla e stavo bene così. Ma loro volevano sapere quale piacere ricavassi da un tale amore, e allora io mentii ancora: risposi loro che, dopo che Lei aveva smesso di salutarmi, io non trovavo altro conforto che nella poesia con la quale Le dichiaravo tutto il mio amore e lodavo Lei, Lei, il mio unico amore. Allora l’amica che parlava con me mi disse che, se questo era vero – e loro ci credevano, e ne erano compunte – ciò significava che anche le poesie scritte in precedenza avevano questo significato e che solo a causa di un assurdo fraintendimento Lei mi aveva tolto il saluto. Certo, era questa la verità – risposi io – come avevano potuto non capirlo prima?

Ora io sapevo che questa non era la verità e che io mi ero tanto immedesimato nella mia parte da risultare veritiero agli occhi delle mie e Sue amiche! Ma allora io non sapevo perché tutto ciò era accaduto e la ragione per cui le mie parole erano state fraintese. Ad essere sincero, non lo so neppure oggi. Oggi, in compenso, so che le cose che accadono, non sempre accadono per un motivo. In ogni caso, non L’avrei più rivista, e ugualmente L’avrei amata nella poesia, questa era la mia decisione, a cui non potevo venir meno, perché era una decisione che avevo reso pubblica.

Così continuai a scrivere, pensando di averne più che sufficienti ragioni. Scrivevo e mi industriavo a spiegare a me stesso il senso delle mie poesie, commentandole nel dettaglio, preso dalla volontà di darmi ragione a tutti i costi. Scrissi in lode di Lei senza parlare di Lei, per non apparire troppo petulante, ma col pensiero rivolto sempre a Lei. A chi mi chiedeva che cosa fosse amore, io rispondevo che amore era questo sentimento che mi induceva a scrivere. Scrissi in Sua lode anche quando seppi della morte di Suo padre. Non mi recai al funerale, perché non potevo vederLa, ma attesi sulla strada le Sue amiche che ritornavano dal cimitero e mi portavano notizie di Lei. E tanta era la mia afflizione, che queste amiche mostrarono di avere pietà di me. Scrissi anche di questo.

Mi ammalai. Sognai che Lei morisse. Sognai di morire. Non sapevo che cosa                            desiderare, se la mia o la Sua morte. Visioni orribili sconvolgevano le mie notti: donne scarmigliate, piangenti, e dietro di loro il sole si oscurava, le stelle erano prive di splendore, gli uccelli cadevano morti per terra e la terra tremava. In realtà ero io che tremavo e, svegliandomi, ritrovavo immutata tutta la miseria della mia vita. E scioccamente continuavo a scrivere poesie e a darmene ragione.

Già allora avrei dovuto cambiare vita. Ma non lo feci. Vivevo in solitudine, e mi ostinavo a seguire una via che non mi avrebbe condotto da nessuna parte. Non La vedevo più da molto tempo, se non con l’immaginazione, che Ne deformava le fattezze e La rendeva diafana e incolore; ma non era più Lei, che io amavo, bensì un fantasma della mia mente, che io avevo costruito e ora insistevo a dotare di ogni pregio; allo stesso modo la mia poesia – che ora so quanto fosse vana,– diceva cose non vere. Figurarsi quando mi ostinavo a commentarla!  Mi ero messo in testa che un buon poeta doveva essere in grado di spiegare in prosa le proprie poesie, mentre invece non sta scritto da nessuna parte che debba essere così. In questo modo persi i migliori anni della mia vita.

Dovrei riportare qui le poesie e le prose, che allora mi parvero tanto belle, nelle quali dicevo quali effetti producesse la bellezza di Lei sull’animo delle persone? Il lettore sa bene che ciò non è possibile, avendole io gettate via già da molto tempo.

Un giorno seppi che Lei era morta. Ma di questo io non voglio qui parlare, per tre motivi: in primo luogo, perché non è questo che mi spinge a scrivere; in secondo luogo, perché io non saprei parlare con parole adatte della sua morte; in terzo luogo, perché parlando della morte di Lei, io dovrei parlare di me stesso e del mio profondissimo dolore, e neanche questo è nel conto di questo libretto. Dico solo che quello fu un giorno molto triste della mia vita, ma oggi non fa più molto male, tanto tempo è passato. Mandai le mie poesie a tutte le persone che ero in grado di raggiungere, e soprattutto a critici importanti e persone molto colte, ma nessuno mi rispose. E fu un bene.

Mi era rimasto solo un amico, il mio migliore amico, che mi invogliava a scrivere, e certo anche lui allora era uno stolto. Tuttavia io gli dedico questo libretto, perché conosca la verità di ciò che è accaduto. Sebbene non sappia che fine abbia fatto, spero che sia rinsavito e che mi voglia bene come io gliene voglio.

Così mi trascinavo, scrivendo.

Un giorno, molto tempo dopo, mentre mi trascinavo tutto trasandato e pensoso, mi sentii gli occhi puntati addosso. Li voltai verso l’alto e vidi che una ragazza mi guardava. Non saprei dire se era bella o brutta, ma certo a me piacque molto, perché mi guardava con uno sguardo ironico e quasi beffardo, che dapprima mi irritò, ma poi mi intrigò in modo sempre più intenso. Questa giovane donna se ne stava immobile nel vano di una finestra, non parlava, si limitava a guardarmi e sorrideva, forse aspettando un mio cenno. E io le feci più che un cenno e da allora presi a frequentarla ogni giorno. Essa mi riguardava sempre così ironicamente, che tutta l’ironia sembrava in lei raccolta. Nel suo sguardo potevo vedere, come in uno specchio, quanto fosse deforme il mio aspetto pietoso. Da quel momento, ogni volta che mi accingevo a scrivere poesie in lode di Lei, ogni volta sentivo un magone salirmi dallo stomaco alla gola, e così anche quando commentavo le mie poesie come fossero roba d’altri. Smisi di scrivere di Lei e fui libero.

Per farla breve, frequentai tanto questa donna, che alla fine non potei fare a meno di vederla ogni giorno. Stavo sempre insieme a lei, e solo con lei riuscivo a capire meglio la mia bislacca condotta. Non so se l’amassi veramente – ma ora mi dico: che cos’è l’amore? –.

E’ un fatto: questa donna mi fece capire molte cose. Tuttavia spesso mi ritornava in mente Lei, ed era un pensiero doloroso. Infatti, con quale coraggio potevo rinnegare tutto il mio passato, le mie dichiarazioni di amore disinteressato, la mia vita menzognera? Ebbene, il coraggio lo trovai nello sguardo della donna della finestra, che sapeva tutto il mio travaglio interiore e lo capiva, ma ne distruggeva gli effetti con una sola occhiata. E poi, non è vero che col tempo tutte le cose sono destinate a perdersi?

Così il tempo passò, e l’immagine di Lei a poco a poco svanì dalla mente e non rimase traccia neppure nei sogni. Se volete saperlo, io continuo a frequentare la donna della finestra, e spesso ci affacciamo insieme per vedere che succede nella strada. Essa mi ha convinto a gettare via tutte le poesie e tutti i commenti che avevo accumulato per darmi ragione. Ed è col suo permesso che ho rievocato questa mia storia, perché, come lei dice, una volta scritta, non se ne parli più.

Ora, se Dio vorrà, starò tutta la vita insieme alla mia compagna, a cui sottoporrò quello che verrò scrivendo, se mai mi capiterà di scrivere ancora. Questa storia è davvero finita e io non vedo l’ora di cominciare una vita nuova.

[2003]

Questo racconto, col titolo Vie nuovelle, nel 2017 è stato tradotto in francese da Annie et Walter Gamet.

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