Un’altra versione, diciamo più colta, riporta a Roma e al Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica in 106 volumi di cui fu autore Gaetano Moroni, nell’Ottocento[1]. Il Moroni afferma che già da alcuni secoli prima era tenuta in gran conto una devota usanza: dall’11 novembre iniziava di fatto l’Avvento, tempo di penitenza in preparazione del Natale, durante il quale si praticava il digiuno e l’astinenza da ogni carne, compresi quindi gli amplessi coniugali. Poiché quaranta giorni erano lunghi da passare, i mariti più ligi temevano che le mogli meno pazienti si prendessero – diciamo così – alcune libertà eccessive, e quindi si affidavano al santo che vigilava l’inizio della penitenza, affinché vegliasse sulla onorabilità del focolare domestico. Fu così che la malizia popolare finì col rendere il povero Martino inconsapevole patrono di tutti coloro che avevano moglie: la mentalità rigorosamente maschilista dell’epoca infatti vedeva in ogni donna una potenziale Messalina.
L’argomento delle corna ha sempre destato ironie, modi di dire, detti popolari, il cornuto è sovente bersagliato dalle battute, dalle allusioni, dai doppi sensi, dallo scherno di amici e parenti. La cultura delle corna, non solo in Italia, è vastissima ed ha prodotto una letteratura non engagè, direbbero i francesi, disimpegnata, leggera. Vi sono novelle, commedie, opere teatrali dedicate al marito cornuto; quella delle corna è una vera e propria ossessione per il maschio medio occidentale. “Il ricercatore odierno, nutrito di una rudimentale psicoanalsi, dispone di una chiave di lettura per spiegare questa ossessione per le corna: il riso maschera la paura”, scrive Daumas[2].
Per tornare alla festa di San Martino e al suo protettorato sui cornuti, si potrebbe pensare che il contadino, a lungo assente da casa per i lavori della semina o del raccolto, fosse in pena sapendo la moglie sola per un protratto periodo e temendo di poter essere fatto becco si affrettasse a tornare a casa appunto per San Martino, subito dopo la vendemmia. I timori del contadino nella società agricola del passato apparivano fondati perché il marito poteva essere raggirato dal prete o dal nobile del paese o ancora da un ragazzo più giovane. Nessuno voleva divenire la favola del paese, sapersi cornuto era un’onta, la peggiore delle vergogne, ed è chiaro che ciascuno cercasse di scongiurare una simile evenienza. Ma torniamo a bomba sull’interrogativo inziale: perché il marito tradito viene chiamato cornuto? Le corna sono simbolo di virilità, di ardimento, persino sprezzo del pericolo. Non a caso nel dialetto salentino si dice “ca porta le corne” di un bambino scatenato, monello, che si ficca sempre nei guai, o anche di un uomo che non teme nulla. Sembra allora difficile spiegare che un simbolo di coraggio, forza, ardimento maschile, “troneggi sulla testa di un personaggio che si definisce proprio per la perdita della virilità”[3]. I cornuti sono presenti in tanti proverbi, canzoni popolari e in cunti e titteri sempre come oggetto di derisione. Il primo personaggio mitologico portatore di corna è il dio Cernumno, della mitologia celtica. Si tratta di un dio della fertilità, dotato di corna di cervi, e associato al corno dell’abbondanza, mitico simbolo di prosperità, e proprio la cornucopia viene abbinata alla cornutaggine. Il cornuto fa parte del nostro folklore e soprattutto nelle culture meridionali il termine viene usato in modo ironico, scherzoso, sfottente. Non so se mi convince però la spiegazione di Daumas. Egli associa questo simbolo di fortuna al marito tradito con un evidente paradosso. Citando una ricchissima bibliografia di autori francesi del Cinquecento e Seicento, Daumas spiega che il collegamento è dato dalla ricchezza e dalla prosperità, ricorrendo al noto proverbio per cui chi è sfortunato in amore è fortunato nel gioco. La ricchezza è quella di chi possiede una famiglia e una bella moglie, inoltre terreni e denaro. Troppo, perché non avvenga un contrappasso. “Per una giusta compensazione chi è fortunato al gioco deve patire in amore. Alla negatività che lo contrassegna sul piano della sessualità e della virilità (gli si ruba la moglie), corrisponde la positiva relazione intrattenuta con il denaro e la proprietà (non si può rubare a chi non è ricco). Beneficiando del possesso di una moglie” e di un patrimonio, “egli appartiene sempre al gruppo dei ricchi, dei detentori […] Nella concezione di un mondo giusto […] tale prelievo di ricchezza deve a sua volta essere oggetto di compensazione […] In questa prospettiva la cornificazione consente una redistribuzione delle ricchezze, legittimata dal comportamento del cornuto: troppo anziano o avaro o geloso, egli merita a pieno titolo la sua sorte”[4]. Mi viene di pensare all’adagio popolare “mogli e buoi dei paesi tuoi”: meglio che la moglie, sempre potenziale cornificante nella mentalità maschilista del passato, sia una donna a te vicina non solo geograficamente ma anche per classe sociale, per censo, per cultura, insomma una contadina come te, piuttosto che appartenente ad altra sfera sociale, perché, montandosi la testa, potrebbe pensare di farti becco, proprio come il bue cornuto[5]. E “becco” è un altro modo di indicare il cornuto perché il becco è il marito della capra la quale è nota per la disinvoltura con cui cambia partner. Anche la vacca cambia continuamente partner il che farebbe pensare che dall’associazione col toro, il maschio della vacca, cornuto di fatto e in via figurata, sia derivato l’ingiurioso epiteto. In Italia, l’aggettivo fa quasi sempre riferimento al marito tradito, in rari casi viene usato come insulto generico (anche nell’accrescitivo “cornutone”): un classico nel nostro paese, è quello dell’arbitro di calcio, invariabilmente appellato in siffatto modo. Spesso, nel dileggio popolare indirizzato al marito tradito, al gesto delle corna si associa la canzone di Riccardo Cocciante Cervo a primavera, appena accennata nel suo ritornello. L’epiteto “cornuto”, come in genere le voci di insulto, rientrano nella lingua parlata, per l’esattezza in quella triviale, “materiata di aggressività espressiva, ironia mordace, esasperata visività, segreta malinconia”, insomma “un linguaggio capace di un rapporto totale con la realtà rappresentata, dotato di una tensione e di un impatto che non è azzardato definire travolgenti”[6].
Sull’associazione corna- infedeltà coniugale, Focus on line scrive: «Molti studiosi hanno cercato di capire dove e quando l’espressione “avere le corna” e l’aggettivo cornuto hanno cominciato ad avere il significato ingiurioso attuale. Secondo alcuni, fu a Costantinopoli al tempo dell’imperatore Andronico Comneno (1120 circa -1185). Si narra che il terribile imperatore bizantino fosse spietato con i suoi sudditi, imprigionasse chiunque lo avversava e rapisse le mogli per tenerle come concubine, facendo poi appendere sulle case dei poveri mariti, per scherno, delle teste di cervo, come simbolo della preda cacciata. Quando nel 1185 i soldati del re Guglielmo II di Normandia, diretti a Costantinopoli, arrivarono a Salonicco (allora Tessalonica) chiesero spiegazioni su quelle teste cornute appese sui muri della città, venendo a conoscenza della storia di Andronico. Portarono così l’espressione “mettere le corna” in Sicilia e da lì il modo di dire si è poi diffuso in tutta la penisola». O ancora: «C’è poi un’altra possibile spiegazione che affonda le sue radici nella mitologia greca e in particolare alla nascita del Minotauro. La storia è questa: il sovrano di Creta, Minosse, figlio di Zeus ed Europa, costruì un altare dedicato a Poseidone, sul quale avrebbe dovuto immolare un toro bianco inviatogli in dono dallo stesso dio. Colpito dalla magnificenza dell’animale, re Minosse lo preservò per le sue mandrie, sacrificando un altro esemplare. Poseidone, scoperto l’inganno, punì il re facendo innamorare del bovino sua moglie Pasifae che, nascosta in una giovenca di legno, ebbe un amplesso con l’animale e diede poi alla luce il Minotauro, un mostro metà uomo e metà toro. Fu così che i Cretesi, a conoscenza dell’adulterio, iniziarono a mostrare per scherno le corna al re Minosse, eleggendolo… il primo cornuto della storia»[7].
Il professor Armando Polito dice di essersi arreso di fronte alla caterva di ipotesi messe in campo per spiegare la sequenza tradimento>corna, quasi tutte fondate su “si racconta”, “si dice” e simili. Il collega studioso Francesco Frisullo mi segnala un libro dell’Ottocento sul gesto: Andrea de Jorio, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano[8]. Posto che ogni gesto della mano, come spiega de Jorio, “può considerarsi sotto due aspetti, pel modo cioè nel quale fisicamente si esegue quel movimento, quella posizione, quel concerto di mano, di dita, ecc. e per l’idea che vi si attacca”[9], il gesto delle corna ha certamente una doppia valenza, positiva e negativa, ovverosia scaccia iella e di scherno, ed infiniti significati. Per capire quale valenza specifica abbia il gesto, l’autore spiega che “ove manchi la notizia del soggetto della conversazione per via della parola o dello scritto, conviene ricorrere ai gesti, ed attendere in conseguenza a mettere a calcolo quei movimenti che fanno gli altri della società. Quindi per esempio vedendosi la mano cornuta (v. il tit.) eseguita da una persona i dùcili tratti del volto e la posizione del suo corpo non valgono a farci definire il senso in cui la detta persona fa le corna, si deve osservare il resto della compagnia. Se si vedono fra i componenti il crocchio persone in atto di sdegno, di vendetta ecc. allora le mani cornute dinoteranno idee di sdegno, di vendetta ec.. Se all’opposto l’intera brigata si occupa di cose piacevoli ed allegre, allora la stessa posizione della mano dinoterà una idea consona al soggetto della società, e quindi un amuleto”[10]. Il professor Eugenio Imbriani, da me interpellato, non ha saputo fornirmi ulteriori spiegazioni ma mi ha indicato un libro, pressoché introvabile (che infatti non ho trovato): Giuseppe Cocchiara, Il linguaggio del gesto (Palermo, Sellerio editore, 1977).
Note
[1] Il titolo completo è: Gaetano Romano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro ai nostri giorni, specialmente intorno ai principali santi, beati, martiri, padri, ai sommi pontefici, cardinali e più celebri scrittori ecclesiastici, ai varii gradi della gerarchia della chiesa cattolica, alle città patriarcali, arcivescovili e vescovili, agli scismi, alle eresie, ai concilii, alle feste più solenni, ai riti, alle cerimonie sacre, alle cappelle papali, cardinalizie e prelatizie, agli ordini religiosi, militari, equestri ed ospitalieri, non che alla corte e curia romana ed alla famiglia pontificia, ec. ec. ec., compilato da Gaetano Moroni Romano primo aiutante di camera di Sua Santità. 103 voll. Venezia: Dalla Tipografia Emiliana, 1840-1861. Nel 1962 è uscita una nuova edizione: Indice generale alfabetico delle materie del Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica compilato dall’autore stesso Gaetano Moroni. 6 voll., Roma, Bardi, 1962 (che è la ristampa anastatica dell’edizione 1878-1879, Venezia, Tipografia emiliana).
[2] Maurice Daumas, Adulteri e cornuti. Storia della sessualità maschile tra Medioevo e Modernità, Bari, Dedalo edizioni, 2008, p. 182.
[3] Ivi, p.183.
[4] Ivi, pp. 207-208.
[5] Sull’idea che sia meglio avere una moglie non ricca nè nobile, su cui si esprime la trattatistica napoletana, si veda: G. Vitale, La “sagax matrona” tra modello culturale e pratica quotidiana, in Eadem Modelli culturali nobiliari nella Napoli aragonese, pp. 139-208, citata da Patrizia Mainoni, Il potere di decidere, in «Con animo virile». Donne e potere nel Mezzogiorno medievale (secoli XI-XV), a cura di Patrizia Mainoni, Roma, Viella, 2010, p. 199, nota 6, in cui si fa riferimento al “complesso di Griselda” circa la dote e i doni di nozze nel Medioevo.
[6] Ernesto Ferrero, I gerghi della malavita dal ‘500 ad oggi. Aggressività espressiva e ironia mordace in un dizionario che è anche la biografia della “mala”, Milano, Mondadori Editore, 1972, p. 9.
[7]https://www.focus.it/comportamento/sessualita/perche-il-marito-tradito-e-chiamato-cornuto-news#:~:text=Shutterstock
[8] Andrea de Jorio, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, Napoli, Fibreno, 1832.
[9] Ivi, p. 5.
[10] Ivi, pp. 7-8. In un lungo saggio su tutte le specie di corna che usano i napoletani e gli infiniti significati dei gesti, con riferimento all’infedeltà coniugale, l’autore scrive: “La mano cornuta portata verticalmente verso la fronte dinota quello, che da taluni chiamasi un ornamento, ma che infatti è l’effetto di una vera infedeltà. Il portarla verso la fronte è la caratteristica del presente significato del gesto, di modo che la mano cornuta accostata alla fronte non può esprimere che solo il descritto senso. Questo gesto nel presente significato è molto comune, e ben conosciuto anche dagli esteri, e perciò stimiamo inutile ulteriormente parlarne. Se poi si volesse nascondere il gesto ad alcuni della conversazione, allora non potendosi eseguire il gesto a rigore, la mano cornuta, in qualunque posizione essa sia, dinoterà lo stesso, purché però sia noto il soggetto della conversazione, e di che si tratta. Che rapporto abbia questo gesto col significato di cui si parla, non è facile l’indovinarlo. Sarebbe forse perché in questo caso il corno si prende per sinonimo del medicus invidiae di Plinio, come vedremo, e quindi il dire col gesto che Tizio ha due corna, sarebbe lo stesso che ripetere: Costui ne ha due, uno proprio e l’altro alieno (imprestato). Chi sa se da questa idea non sia nata l’espressione del nostro popolaccio con la quale suole accompagnare il gesto di cui parliamo. Un Napoletano, vedendo persona che merita il significato di questo gesto, nel farglielo, alludendo a chi n’ è la causa, vi aggiunge l’espressione, è un Calesso col bilancino, è candela a due lumi, perché ad un solo non basterebbe per illuminare una stanza che si suppone un poco più grande del solito, e il calesso troppo grave per esser tirato da un cavallo solo”: Ivi, p. 93. Già i Greci, dice, avevano il costume di così esprimere col gesto delle corna questa sorta d’ ingiuria. Essi, infatti, “esprimevano con questo gesto gl’inganni che le donne amate fanno agli amanti”: Ivi, pp. 114-115.