* * *
In una masseria, può essere quella di San Marco o quella chiamata Tramacere, prima che scenda la sera. E’ festa, e si prepara la corsa nei sacchi. Siamo fuori dagli alti muri, ma la partenza è posta forse nel cortile, rivedo un gruppo di uomini molto buffi con l’orlo del sacco stretto intorno alla vita, le mani libere e agitate, e risento gli schiamazzi della gente intorno, gli incitamenti, il grido di vittoria del vincitore, mentre sta per farsi sera. Non so se è nello stesso luogo, è già buio, le lampade di petrolio alte intorno a un grande tavolo e voci di uomini che bevono e donne intorno che portano piatti fumanti. So che l’immagine, con i suoi particolari, l’ho sempre collocata nel cortile di una delle masserie dove andavo in compagnia del nonno, amico di tutti i massari del circondario. A un certo punto il nonno risponde ai brindisi, lancia nuove frasi alzando il bicchiere, recita qualcosa. Questa scena è collegata con un’altra immagine : è pomeriggio, siamo al Marangella, all’ombra di un albero, e il nonno è intento a ripetere parole ad alta voce. Ripensandoci, qualche volta ho anche l’idea che con una matita scriva di tanto in tanto su un foglietto, ma non so se questo ricordo appartiene alla stessa scena, certo è che a un certo punto il nonno mi chiama e mi fa ascoltare la poesia che ha composto in dialetto, mi ripete i versi perché io li possa mandare a memoria, per dirli, magari dopo di lui, intorno alla grande tavola imbandita la sera nella masseria. Oppure, e qui i luoghi del ricordo si spostano dalla campagna nel paese e dall’estate nell’inverno, quei sunetti devo recitarli dinanzi a un presepio, rivolto allu mamminieddhu .
Per qualche anno, ancora adolescente, ricordavo i versi dialettali del nonno e, quanto ad altre narrazioni familiari, avevo trascritto su un quadernetto a quadretti dalla copertina nera e l’orlo rosso, le storie in versi e le filastrocche che la nonna materna mi ripeteva. Ricordo che a un certo punto mi ero rivolto a lei, su suggerimento di mia madre, per me prima narratrice assidua di quelle storie, come alla fonte più certa per la veridicità di certi passaggi, per l’integrità di certi versi. Il quaderno l’ho perduto molto presto e della voce di mia nonna non ho conservato nella memoria il tono, forse perché il raccontare di mia madre, le sue tonalità, i suoi timbri, avevano preso un posto sovrano, indimenticabile, e i riscontri diciamo antropologici della nonna erano sopravvenuti in un’epoca già affollata da adolescenziali fantasticherie e letture. Ma quando alcuni anni fa, scrivendo L’imperfezione della luna, ho riportato la preghiera che bambini rivolgevamo a San Giovanni nell’imminenza di un temporale –Azate, san Giuanni, e no ddurmire…– è il volto di mia nonna e i suoi gesti che mi sono venuti in mente, mentre il tono con cui sentivo pronunciare le parole e la cadenza erano di mia madre.
* * *
Nel Marangella c’era, accanto all’unica stanzetta di tufo, un angolo con delle lastre di pietra viva sostenute da blocchi di tufo : quell’angolo in certe occasioni funzionava da forno. E ricordo due oggetti, uno, l’ursulu, l’orciolo per il vino, che vedo nel chiuso di una stanza e nell’ombra, poggiato su una specie di mensola, l’altro, lu mmile, l’anfora che fa conservare fresca l’acqua, che vedo sì nell’ombra ma all’aperto, sopra un pietrone, discosto però dai cespugli dove strisciano lucertole e saltano cavallette e svolazzano farfalle. Al mattino, proprio alla prima luce, il nonno mi mostrava come si sbucciano i fichidindia. Quel sapore di fresco e di dolce insieme, la lucentezza del frutto sbucciato, che poteva essere sanguigno o di un giallo intenso o di un verde chiarissimo, lo sciogliersi della polpa mentre si liberava in bocca dai grani, che pure avevano una loro scontrosa dolcezza, l’idea che quel frutto nasceva sulle pale verdissime, insieme dure e acquose dell’albero, con le quali facevamo, noi bambini, carretti e ruote e stelle, e avesse una fastidiosa buccia spinosa, dava forse al sapore un di più di gusto, una sorta di profondità. Nel Marangella non ricordo serate festose tra parenti, che pure ci saranno state, qualche volta, ma rivedo soltanto due personaggi, il nonno e il cane Alì, mentre le ore del giorno scorrono senza alcuna noia, perché ogni particolare, pianta, uccello, insetto, ombra, passaggio di nuvola, ha una presenza forte, mi prende gli occhi e i sensi, e lo stesso lungo silenzio è traversato da pensieri e svagamenti che mi fanno compagnia. In un angolo, appoggiata a un muretto, c’è la bicicletta del nonno, nera, il tascapane appeso alla canna, i raggi lucenti nel sole del meriggio. E’ la bicicletta di un contadino che è anche guardia campestre, anzi comandante delle guardie campestri, una bicicletta abituata dunque a lunghi cammini su viottoli e tratturi. Con quella bicicletta ho fatto i primi esercizi, le prime corse, e su quella bicicletta mi appare il nonno mentre lungo un muretto di pietra viva parla con un contadino che invece sta sopra uno scialabà, con la frusta che ciondola dalla mano, mentre il cavallo guarda verso di me con i suoi occhi profondi, ombrosi. Tutt’intorno il grido delle cicale. Poi sono sulla canna di quella bicicletta, in paese, accompagno il nonno al mercato, dove da un monte di angurie che sono per terra si fa dare quella che è in assoluto la più grande, la riportiamo a casa tornando a piedi, e tenendola in bilico in un sacco poggiato sulla canna. Ma è alla terra rossa del Marangella che mi riporta per lo più l’immagine della bicicletta, quasi appartenesse, con i suoi raggi, il manubrio, la catena, il campanello, più che al nonno, al muretto al quale per lunghe ore era poggiata, al cane che si accucciava presso le sue ruote, alle lucertole che sfioravano i copertoni e s’allontanavano con guizzi improvvisi, alle macchie d’ombra che punteggiavano la sella nel pomeriggio assonnato.
[Preludio a Gianluca Virgilio, Infanzia salentina, Edit Santoro, Galatina, 2009]