Donato Valli e la parodia della scienza nei settenari sdruccioli della Stampita leccese

Indipendentemente dal suo tipo testuale e dall’interesse dei suoi contenuti, si tratta infatti – secondo Valli (2006, p. 10) – di un “eccezionale documento […] da inserire nella produzione dialettale del primo settecento salentino”. Nonostante il suo argomento di natura scientifica e sperimentale, l’operetta si fonda su un tessuto linguistico complessivamente “tributario della tradizione giocosa cinque-secentesca”, ma che presenta in realtà un conflitto di linguaggi rappresentanti un riflesso della divaricazione della società salentina (tra cittadini attenti a perseguire un senso comune e altri animati da nobili aspirazioni).

Pur esprimendo un apprezzamento per le annotazioni dei saggi che lo hanno preceduto, tenendo conto del momento di diffusione di questo testo, che segue l’Apologia Paradossica del 1707[1], Valli (2006) riassume alcune considerazioni sui rapporti tra scienza e costume e presenta un quadro generale in cui si affermano la concretezza delle Accademie leccesi e un certo disprezzo per la filosofia astratta[2].

Tuttavia, al di là degli stessi argomenti trattati che ne giustificano il tono e la collocazione, la commedia propone l’anticipazione di contenuti che avrebbero caratterizzato i progressi sociali e scientifici e della cultura dell’epoca e, per certi versi, dà una chiave di lettura mutatis mutandis di altre controverse questioni dei giorni nostri.

Ecco quindi che questo contributo, oltre all’estensione di alcune annotazioni linguistiche, aggiunge una lettura più prosaica delle motivazioni che possono aver spinto alla stampa di quest’operetta. Se infatti, dopo averla localizzata storicamente ed epistemologicamente, proiettiamo i modi e i ritmi della disputa alla nostra attualità, ne vediamo le analogie con l’eterno problema della diffusione di informazioni, vere e/o false, ma assolutizzate nei confronti delle diverse verità da cui dipendono: la verifica dialettica di una di queste, forse scomoda a una frazione dominante della società, spiega le presunte cause del suo anonimato e della sua limitata circolazione, come lo stesso Valli aveva prospettato[3].

1. Carattere e genere della Stampita leccese

Secondo Valli (2006) la Stampita “si situa per antichità al secondo posto del prezioso quartetto di componimenti studiati e definitivamente sistemati da Mario Marti nel suo Settecento dialettale salentino: e cioè Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano (1691-1692); La rassa a bute (1730 ca.), Nniccu Furcedda (1730 ca.); Juneide (1770-1771)”[4].

Sul perché del nome “Stampita” Valli (2006) si sofferma a p. 78 in riferimento all’estampida provenzale, un genere musicale strofico, la cui conoscenza ci è giunta attraverso noti capolavori (come i Kalenda Maya di Raimbaut de Vaqueiras, 1165-1207). E tuttavia, oltre all’improbabilità di un adattamento musicale dei contenuti della Stampita leccese che si connota maggiormente come “contrasto”, è soprattutto la mancanza di una simile tradizione nell’ambito della cultura popolare salentina che spinge ad aggiungere una nuova direzione esplicativa. La parola stampita, ignorata da Rohlfs nel VDS[5], risulta infatti ancora vitale a Gallipoli, Parabita e Casarano col significato di “lungo percorso che stanca” e così è registrata infatti nel DDS (in riferimento a La lingua te lu tata di M. Attisani Vernaleone)[6]. Il riferimento sarebbe quindi non al genere trobadorico, ma a un concetto della cultura salentina che doveva essere più diffuso in quegli anni, come di “marcia, percorso faticoso e ritmato per raggiungere una meta lontana” dal quale non si discostano altri significati italo-romanzi, come quello toscano di “discorso lungo e noioso”[7]. All’origine di queste espressioni, comuni al provenzale antico (e a diverse parlate romanze ancora oggi), ci sarebbero comunque gli stessi germ. *stampjan e franc. *stampōn ‘pestare’. Il riferimento al ritmo linguistico suggerito dalla parola Stampita risulterebbe così rafforzato nel nome che espliciterebbe anche la motivazione del testo, orientato verso la meta di una conoscenza accertata, su un tema che doveva aver dato adito a lunghe discussioni, raggiungibile soltanto attraverso l’esplorazione di una verità dialettica.

Altro merito di Valli (2006) è nell’aver individuato nell’insolito metro settenario sdrucciolo uno strumento per sdrammatizzare, visto il tono giocoso e il linguaggio colorito del componimento che riproduce schemi di maniera, che godevano di una certa fortuna letteraria in quel momento, piegati però a trattare di temi di una realtà prosaica[8]. Il riferimento immediato è infatti all’autore che più aveva fatto uso di versi sdruccioli “satirici equidistanti irrepetiti” e cioè il friulano Ludovico Lepòreo (1582-1655), ricordato nelle più importanti rassegne letterarie come promotore di temi colloquiali e prosaici e maestro della rima giocosa[9]. La differenza sostanziale tra i leporeambi e i versi della Stampita consiste nel fatto che “mentre i primi per ottenere effetti sonori, di fondamentale importanza per l’inventore del genere, puntano sulla rima [e sull’assonanza, ndCit.], la seconda gioca esclusivamente sull’insistenza dell’accento tonico” (Valli 2006, p. 81).

2. La Stampita e la gessatura del vino

Il tema centrale della Stampita, annunciato dal titolo “Storia dellu mieru cunzatu cu lu gissu” riguarda la gessatura del vino, un procedimento simile a quelli ancora oggi usati – ricorrendo a soluzioni agro-industriali più sofisticate – per garantire una qualità che offra una minore disposizione all’acidificazione.

La gessatura del vino pare sia documentata sin da Columella e Palladio[10], ma i diversi autori che ne parlano in opere che attraversano tutto il Settecento, accreditando Plinio (XIV, 19), l’attribuiscono alle tradizioni vinificatorie di Africa e Grecia[11].

Il principio è legato al fatto che l’acido tartarico (C4H6O6) presente nell’uva sviluppa un sale durante la fermentazione: il bitartrato di potassio (C4H5KO6, il cremor tartaro dei depositi delle botti). L’aggiunta di gesso, un solfato di calcio di·idrato (CaSO4·2(H2O)), facilita la formazione dei depositi, chiarificando il vino e correggendone l’acidità[12]. E tuttavia il gesso residuale non pare essere salutare neanche in quantità moderate e di questo discutono con un medico i due popolani della Stampita[13].

3. La lingua della Stampita

Nei suoi 461 versi, per far rimare versi sdruccioli, la Stampita ricorre a 108 verbi proparossitoni e a 34 (più una) forme verbi con clitico. Un confronto potrebbe essere svolto in riferimento ai 17 sonetti della Centuria di leporeambi del 1652 (v. n. 9) che presentano rime sdrucciole (in -àrico, -àcoli etc.)[14].

I versi rimano di solito su parole che risultano comuni ancora oggi nei dialetti salentini e in una forma sorprendentemente simile a quella attuale. Per un parlante della stessa generazione di chi scrive sono poche le forme che possono risultare desuete, dubbie o stiracchiate: ùddechi, crìppesi, sùffeci, gìppesu, dìlegu, cùruli, nchiòtule, fèrseta, còccalu, ùffata, mòvere, stròlecu, dderlèggianu, àsenu, sperbòsetu, udàrega, fùsulu, gerùggecu, vècculu, pràttecu, mùseche, nnùmena, mangiàssemu, zìnganu, nfòrgeca, lettòreca, làrega, ètteca, ssàmpula, stàntanu, chiàetu, incuràbuli, prìculu, sìmprece, scrìttisi, felòsecu, fràula, strùffuli, ciricuècculu, fuddìculu, pìulu.

Colpiscono tuttavia i 22 parossitoni che possono rimare solo immaginando uno iato che oggi non ci è dato più sentire: nèfie, cìriu, ffìzziu, bbesentèriu, prenzìpiu, consequèntia, pustemia.

Da questo punto di vista il testo è una risorsa, anche per la raccolta che propone, non solo di hapax o malapropismi, ma soprattutto di significati talvolta traslati creativamente, ma testimoni di una vivacità del dialetto ancora simile a quella degli ultimi decenni.

Nel complesso soltanto 48 rime su 460 sono affidate a forme ricercate – il resto poggia su parole ed espressioni sorprendentemente attuali.

4. La comicità della Stampita

Nella scena prima la Stampita presenta un dialogo tra due personaggi. Di questi uno, Làzzaru, si è messo in testa che il gesso nel vino fa male. L’altro, Tòtaru, cerca di convincerlo del contrario. La discussione si svolge ordinatamente, con battute sagaci che ricorrono occasionalmente a un moderato turpiloquio, com’è naturale che sia in una conversazione confidenziale tra due popolani.

Nella scena seconda appare il medico, chiamato da Tòtaru a sostegno delle sue opinioni, con sfoggio di scienza e “latinorum”. In questa sezione si manifesta quindi il maggior numero di atti linguistici conflittivi che risultano più decisamente umoristici, ricordando lo spirito della commedia.

A partire dal v. 368 la discussione pare ormai diventata sterile: Tòtaru si è spazientito e i due si ritrovano d’accordo nel rinviare il seguito ad altra occasione, ringraziando il medico che non è riuscito a dare una risposta certa e decidendo di andare a bere alla sua salute. Il dubbio si è però insinuato in Tòtaru (e così nel grande pubblico dei destinatari) che l’operazione sia utile solo ai produttori (e non ai consumatori): [Lazzaru.] Ma st’utile ci dicenu, / è a quiddi ci lu vindenu, / no a quiddi ci lu vivenu (vv. 393-395).

Di usi linguistici e i relativi effetti comici nella costruzione dell’azione scenica, o anche solo nella caratterizzazione dei ruoli e dei personaggi nel teatro dialettale, si è occupato recentemente Alessandro Bitonti[15]. L’originalità dell’approccio di Bitonti (2018) è tuttavia nell’adozione di criteri linguistici per classificare e comprendere situazioni di condivisione e di consenso vs. l’espressione di una critica sociale, i passaggi didattici da quelli comici, in riferimento (1) alle possibilità che la lingua dà d’infrangere regole pragmatiche e (2) alle massime di comportamento che la comunicazione consente di mettere alla prova.

Nell’edizione 1991 della sua Storia linguistica dell’Italia unita[16], T. De Mauro invita a considerare questo genere come veicolo interclassistico con valenze drammaturgiche proprie: il dialetto, insieme alle sue strategie e ai diversi strumenti espressivi, agisce, soprattutto nel caso delle commedie, come mediatore tra la riproduzione dei valori e delle emozioni umane e il disimpegno e lo svago.

In questo caso sembra andare ben oltre, esplorando un canale attraverso il quale trasporre valori e significati ricorrendo alla forte incisività di elementi sonori e cinesici della lingua e consentendo una co-decodifica efficace del testo e una più intensa partecipazione emotiva del pubblico.

Se il parlato scenico dà la possibilità “anche alle classi meno colte, per un verso, di prendere parte alla cultura intellettuale nazionale e, per l’altro, di condividere e di riconoscersi nel patrimonio culturale locale” (Bitonti 2018, p. 104), la commedia in versi, con la riproduzione di linguaggi, vicende, pensieri ed emozioni condivisi e universali, offre un prodotto artistico in grado di raggiungere tutte le classi sociali, dalla borghesia agli strati più popolari.

Nel caso della Stampita, per dare credibilità linguistica, ma anche comicità al testo, l’autore ha voluto collocare la disputa in un quadro metrico accattivante e innovativo esplorando uno spazio linguistico composto da italiano e latino, ma soprattutto dal dialetto; un dialetto a tratti rustico e a tratti ibridato ad arte, secondo le occasionali condizioni del poleto, ma generalmente articolato nei suoi tratti di quotidianità e di normalità linguistica che lo rendono del tutto compatibile (vv. 228-229) con quello dei nostri giorni.

Diversi esempi delle soluzioni umoristiche presenti nella Stampita si possono ritrovare nel teatro contemporaneo di Raffaele Protopapa o di William Fiorentino, il cui linguaggio non risparmia di esplorare i confini della scurrilità, violando spesso le regole del politically correct[17].

Le analisi proposte da Bitonti (2018) si ispirano ai lavori di G. Leech, partendo dai principi della cortesia di Lakoff, e a massime definite in analogia con quelle conversazionali di Grice, anche riferimento ai saggi di J. Culpeper e coll. sulla manifestazioni linguistiche della maleducazione e della provocazione[18].

Nonostante il distinto orizzonte culturale, geografico e storico in cui sono state definite, l’applicabilità di queste strategie alle battute della Stampita consente di trarre interessanti riflessioni.

Se, infatti, spiccano occasionalmente l’allusione licenziosa, l’uso e l’abuso di insulti (civili), alcuni tratti comici si manifestano proprio nella violazione delle massime dell’approvazione e della modestia, riguardando il valore assegnato alle qualità degli interlocutori. La loro infrazione comporta la denigrazione e il biasimo dell’altro e il compiacimento verso sé stessi.

Lazzaru. No ssienti quanti masculi / sta spara lu preteretu? (31)

Totaru. Mancu male si’ strolecu! (100)

Lazzaru. No bbidi ca si n’asenu / e parli allu sperbosetu! (105)

Lazzaru. Bisogna ssia Giangurgulu! (116)

Totaru  capaceta stu taccaru (142)[19]

Lazzaru. E nno tte nde va’ a diascula! (204)

Messere. Cervellacci di tavola! 275

Lazzaru. È persu, parla bbraecu. / Li sarà dat’an coccalu / stu mieru ci sta lliteca. (355)

 (Messere. Il gesso si precipita…)

Lazzaru. Cagnu cu nno sse sgradula! → ‘Piano che non si sgretoli’[20].

Sempre stando a Bitonti (2018), tra le strategie della scortesia si trovano spesso elementi che poggiano sulla “violazione di alcuni principi che regolano la comunicazione, o meglio sull’attribuzione di valori favorevoli all’emittente e sfavorevoli all’ascoltatore”[21].

Tra queste, la massima della generosità che è talvolta violata attribuendo valore sfavorevole alla volontà altrui e ricorrendo al rifiuto, la minaccia o anche la maledizione, in una simultanea e (non sempre) scherzosa violazione della massima dell’empatia (cfr. R. Lakoff “Metti il destinatario a suo agio, sii amichevole”[22]):

Lazzaru. Se n’è bbenutu, spettalu; / ca quantu chiù ddemuranu  / gli uai, chiù fuerti venenu. (96) / Oh, comu t’aggiu bbidere / rrunchiatu de pudareche / cu no tte puezzi movere. (99)

Con la violazione della massima del tatto si tende a minimizzare i costi e ad attribuire valore favorevole alla volontà propria del locutore. Ciò si può verificare anche mediante l’imposizione e, quindi, con il semplice utilizzo di atti diretti di tipo iussivo.

Totaru. Eh, parla culli termeni; / no ffare cu mme sagghianu / li cardilli alla coppula. (108)

Totaru. E tu dici Giangurgulu! / Uarda cu no tte scappanu / chiù ste palore, sailu? (127)

(Messere. Io dico che s’accomoda.) Lazzaru. No sta ’gredare, secuta! (242)

Lazzaru. Guvérnate! Furniscila; / se resta e se precipita. (435)

Messere. Ma se giammai restassevi… (436)

Lazzaru. O resta, o caca; gnuttalu (437)

In quest’esempio, la confidenza guadagnata (in una società che s’avvia verso modelli di convivenza democratica) spinge Làzzaru a violare la massima del tatto persino col medico. La complessità delle reazioni non consente a quest’ultimo di rispondere alle domande perentorie dello scettico. Pensando di proseguire nel suo intento formativo, con un linguaggio ancora non accessibile e nell’ambito di una questione sulla quale, per ragioni diverse, non può essere tranchant, il medico si risolve passando alle analogie con altre sostanze dannose[23]. E così che il gesso, in quelle piccole quantità che “si presume” il bevitore ingerirà, non sarà più dannoso del sale alimentare (il cui eccesso è notoriamente altrettanto dannoso) o dello stesso alcool presente nel vino. L’allusione è, quindi, alla necessità generale di berne meno e il discorso non può andar bene ai due compari che, a quel punto, decidono di annegare la discussione in una “salutare” bevuta.

Nel complesso, quindi, si ravvisano elementi di una comicità organizzata secondo schemi tuttora godibili che si sviluppano attorno al tema partendo da solide basi scientifiche e accennando alle motivazioni e alle contromisure in modo piuttosto equilibrato.

L’autore non può che essere una persona colta e informata che cerca in questo modello di comunicazione e divulgazione un mezzo per far riflettere sulla delicata questione, senza scontentare un’opinione pubblica che si aspetta rassicurazioni e senza screditare troppo palesemente le pratiche industriali dietro le quali s’imbastiscono importanti speculazioni.

Perché, se si tratta di scienziati, gli autori restano anonimi? – si chiede Valli (2006, p. 17). Le due possibili spiegazioni evocate (v. p. 18) possono coesistere in un’unica risposta: perché si scherza e perché si toccano interessi economici.

5. Conclusioni

Nel divertente testo settecentesco della Stampita, una commedia di 461 settenari sdruccioli portata all’attenzione del mondo scientifico e culturale salentino da Donato Valli nel 2006, si trattano, con un linguaggio scherzoso ma linguisticamente ricercato, temi di rilevanza scientifica e commerciale. Dal dialogo tra i personaggi emerge come alcune pratiche industriali miranti a migliorare la qualità del vino possano essere dannose per la salute del consumatore. Il produttore che fa ricorso a queste sofisticazioni si affida a uno scienziato autorevole per ottenere un consenso che prevalga sulla proverbiale diffidenza popolare e su un buon senso che in molti casi, anche ai nostri giorni, cede in molti casi all’edonismo oppure, al contrario, sfocia nel complottismo e in attività antagonistiche.

Secondo Valli, nel confronto tra le posizioni del popolano diffidente e del medico rassicurante si scontrano due culture tra loro impenetrabili: quella “di una realtà che fatica a farsi cultura letteraria” e quella “di una filosofia a volte così astratta da diventare puro privilegio dell’aristocrazia mentale” (Valli 2006, pp. 10-11).

La godibilità della Stampita è forse proprio in questa impenetrabilità e nel modo in cui risalta a noi lettori di tre secoli dopo, in una società completamente cambiata, almeno nelle apparenze. La sua straordinaria attualità è invece nel modo in cui ci conferma l’eterno dilemma della verifica delle informazioni e l’esistenza di verità relative.

Molta informazione che circola oggi sul web e nei canali social si presta a manipolazioni e a interpretazioni pseudo-scientifiche orientate a far emergere solo quella parte della verità che fa più comodo alla fazione cui appartiene il latore (si pensi alle discussioni attorno ai costi-benefici di treni ad alta velocità, condotte sottomarine e campagne di vaccinazione). Adombrato dal sospetto di un subdolo conflitto d’interessi, non sempre ben mascherato dai decisori politici, il cittadino comincia a sospettare l’inganno e, dilagando l’indifferenza istituzionale alla corruzione, sfiducia anche lo scienziato. A quel punto, non gli resta che improvvisarsi esperto autodidatta o annegare l’indecidibilità risultante nel qualunquismo.


Note

[1] In rif. ad Alessandro Laporta (a cura di), Iacopo Antonio Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce, Cavallino-Lecce, Capone, 1977; Aldo Vallone (a cura di), Illuministi e riformatori salentini. T. e F. Briganti e altri minori, Lecce, Milella, 1983.

[2] Lo stesso Valli considera tuttavia gli altrettanto diffusi atteggiamenti antiaristotelici, platonici e cartesiani segnalati da Gino Rizzo, La cultura letteraria: identità e valori, in Storia di Lecce dagli Spagnoli all’Unità (a cura di Bruno Pellegrino), Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 711-830.

[3] Un saggio ineludibile sul concetto di ‘vero’ è in Amedeo Conte, Adelaster. Il nome del vero, Milano, LED, 2016.

[4] Vedi Mario Marti, Letteratura dialettale salentina. Il Settecento, Galatina, Congedo, 1994, che ricorda anche i Sedici sonetti del British Museum (1719-1770), i Sonetti e le Canzoni del Seminario di Oria (1779-1797), il Contrasto Gallipolino (1794) e altre opere minori. Si veda già M. Teresa Romanello, Per la storia linguistica del Salento, Alessandria, Dell’Orso, 1986. Cfr. Rosario Coluccia, La Puglia, in L’italiano nelle regioni (a cura di F. Bruni), Torino, UTET, 1992, pp. 685-719. Nel 2006, la ripubblicazione del testo da parte di Valli ha ricevuto un certo rilievo mediatico anche in riviste locali (ad es. Piazzasalento, L’Alceo etc.) con articoli che hanno saputo cogliere il valore storico-linguistico della scoperta e l’interesse per la comunità, ma il contributo è ancora poco presente nelle sintesi sul Settecento dialettale salentino più recenti (come quella in Fernando Salamac, Letteratura dialettale salentina, in L’Idomeneo, 19, 2015, pp. 257-266).

[5] Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), München, Verlag der Bayerischen Akademie der Wissenschafen, 1956-1961 (ed. it. 3 voll., Galatina, Congedo, 1976).

[6] G.B. Mancarella, P. Parlangeli, P. Salamac, Dizionario Dialettale del Salento, Lecce, Grifo, 2011, p. 434.

[7] GraDItGrande dizionario italiano dell’uso di T. De Mauro (e coll.), Torino, UTET, 8 voll., 2002.

[8] In tal modo, il testo della Stampita si propone come antesignano della commedia popolare salentina, testimoniando uno strettissimo rapporto fra dialettalità e teatro e, semmai ce ne fosse bisogno, del ruolo del teatro nella comunicazione e nella trasmissione di messaggi (in)formativi, in questo caso persino su temi per i quali si divulgano riflessioni di carattere scientifico (v. §4).

[9] V. Claudio Varese, La poesia giocosa e il ditirambo, in Storia della letteratura italiana (a cura di E. Cecchi & N Sapegno), V, Il Seicento, Milano, Garzanti, 1967, pp. 892-893. Le opere del Leporeo sono raccolte in tre volumi: Leporeambi alfabetici lirici, satirici, faceti… (Milano, 1639), Leporeambi nominali alle dame e accademie italiane (Milano, 1641) e Prosa rimata curiosa (Roma, 1652), tutte disponibili sul sito del consorzio CIBID (Università di Ferrara, Lecce, Pisa, Roma “La Sapienza”, Salerno e Torino): http://ww2.bibliotecaitaliana.it/. V. Valter Boggione (a cura di), Leporeambi, Torino, Edizioni Res, 1993.

[10] Così almeno secondo Carlo Verri, Manuale per la fabbricazione del vino, Milano 1845 (ma già nell’ed. di G. Silvestri, Milano 1823. p. 28). Di queste edizioni, così come di quelle di altri testi nelle nn. segg., esiste una versione digitale nella biblioteca di Google books.

[11] La prima attestazione in un quadro argomentativo ispirato da esperienze pratiche pare essere il ravennate Marco Bussato nel suo Giardino d’agricoltura (Venezia, Fiorina, 1592) ripreso in diversi riedizioni omonime del 1726-33 e 1768 (5a ed. 1794). E d’altra parte il ricorso ad additivi vegetali nell’anticihità e negli usi ancora tradizionali di certi paesi (ad es. le resine usate nei vini greci) risponde alla stessa necessità. Nei primi secoli d.C., la contrapposizione tra un vino prodotto al naturale e i vini trattati in tali modi aveva indotto a usare espressioni come mĕru(m) ‘puro, semplice’ (> sal. mieru). Ancora oggi in varie regioni la distinzione viene sottolineata da espressioni affermatesi successivamente, come sal. schiettu e it. schietto, entrambi da got. slaiths ‘semplice’ (sebbene questo sia anche all’origine di ted. mod. schlecht ‘cattivo’, v. GraDIt, cit.).

[12] Antonio (T.) Turco, Il gesso: lavorazione, trasformazione, impieghi, Milano, Hoepli, 1990 (1a ed. 1961).

[13] Di questo dubbio si fanno portavoce diversi autori, come il pistoiese Cosimo Trinci nella 1a edizione de L’agricoltore sperimentato che sostiene “io non tengo per approvato mettere il Gesso sapendo che è molto cattivo alli corpi umani” (p. 360 delle edd. di Lucca 1726 e 1733). Il dubbio non è ancora dissipato nell’edizione di Venezia, 1768 (a cura di A. Grazioli) e lo sarebbe ancora oggi se non avessimo trovato altre soluzioni (come quella del bisolfito di potassio, in concentrazioni tenute al di sotto di quelle che lo renderebbero dannoso per la salute).

[14] I versi di Lepòreo arrivano a presentare rime che includono fino a tre sillabe postaccentuali (p. 82 dell’ed. di Boggione, cit.: e rimùcciole sdrùcciole mi scàricano) nel caso di verbi alla terza persona plurale. Al contrario non ricorrono mai a clitici che qui invece affiorano spesso (es. v. 94 se n’ è bbenutu spèttalu).

[15] Alessandro Bitonti, Il teatro dialettale di Raffaele Protopapa: lingue, comicità, scortesia, in L’Idomeneo, vol. 25, 2018, pp. 103-117. I riferimenti sono ovviamente ai lavori di Puppa (Paolo Puppa, Itinerari nella drammaturgia del Novecento, in Storia della letteratura italiana (a cura di E. Cecchi, N. Sapegno), IX: Il Novecento, Milano, Garzanti, 1987, pp. 713-864. Id., Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2012), al recente C. Giovanardi, P. Trifone, La lingua del teatro, Bologna, Il Mulino, 2015, e, più vicino a noi, D. Valli, A.G. D’Oria, Novecento Letterario Leccese, Lecce, Manni, 2002.

[16] Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1991 (1a ed. 1963).

[17] Echi della creatività artistica e del linguaggio di questi autori si possono a loro volta ritrovare nelle attività di diverse compagnie coordinate, nel leccese, da P. Fiorino, V. Riezzo, R. Delle Castelle e T. Ingrosso, e nel brindisino e tarantino, tra gli altri, da A. Pésare e R. Cucci.

[18] Le principali letture sull’argomento in ambito internazionale sono quelle offerte da: Geoffrey N. Leech, The pragmatics of politeness, Oxford, Oxford University Press, 2014; Richard J. Watts, Politeness, Cambridge, Cambridge University Press, 2003; Jonathan Culpeper, Claire Hardaker, Impoliteness, in The Palgrave handbook of linguistic (im)politeness (a cura di J. Culpeper, M. Haugh, D.Z. Kádár), London, Palgrave Macmillan, 2017.

[19] Si noti che il ricorso a espressioni offensive resta comunque nei confini di un linguaggio scherzoso e si cela spesso dietro allusioni o, comunque, soluzioni eufemistiche.

[20] Non si tratta qui di un eufemismo (Valli 2006, p. 123), ma di una metatesi (cagnu per chianu ‘piano’).

[21] Si tratta delle massime della generosità, del tatto, dell’approvazione, della modestia, dell’obbligo dell’interlocutore, dell’obbligo del parlante, dell’accordo, della reticenza dell’opinione, dell’empatia e della reticenza emotiva (Bitonti, Il teatro dialettale, cit., p. 111).

[22] I limiti relativi di questa formula sono nei diversi modi di mostrarsi amichevoli, che dipendono da caratteri culturali.

[23] La strategia è molto simile a quella di molti imbonitori dei nostri giorni e di molte ipocrite moratorie che, puntando il dito sui meccanismi contorti delle catene di consumo, stigmatizzano i comportamenti delle masse, ma non indirizzano gli interventi degli enti preposti alla sorveglianza a individuare e controllare le motivazioni alla radice del problema. E d’altra parte quanti non sono i fumatori, i tossicodipendenti o i giocatori d’azzardo che, seppur redarguiti sulla pericolosità di quelle loro attività, perseverano autolesionisticamente?

[Romano A. (2019). “Donato Valli e la parodia della scienza nei settenari sdruccioli della Stampita leccese”. L’Idomeneo, 27, 131-140.]

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