Gioventù salentina 5. Movimenti galatinesi. Il racconto di Roberto Cazzato (27-30 agosto 2006)

Ricordi qualche discussione tra compagni, qualche contrasto?

No, non ricordo.

Ricordi qualche insegnante in particolare?

Avevo la professoressa Caggia, di Materie letterarie, una democratica che non lasciava trasparire nulla di politico, poi c’era la professoressa Rizzelli, una persona molto severa.

Contemporaneamente eri uno scout?

Sì. Ho fatto tutta la carriera, da lupetto a esploratore, per tre, quattro anni, dalla quinta elementare alla terza media, o forse al primo superiore, dal 1968 al 1971 circa.

Chi dirigeva a Galatina il gruppo degli scout?

All’epoca, presso Santa Caterina, dove c’era il gruppo scoutistico, il padre spirituale era padre Ignazio, ma aveva un grande ascendente su noi giovani anche padre Antonio Frebraro, che era un giovane francescano molto democratico, una persona eccezionale. Il capo  – gli scout sono strutturati in modo simile a quello dei militari (divisa, marce, ecc.), e per questo erano molto criticati da alcuni ambienti della sinistra – era Sergio Fusetti, che attualmente è molto conosciuto come restauratore; poi c’era Michele Pintaudi, Corrado e Fernando Panico, figure molto importanti nella mia formazione, ma anche nella formazione di un’intera generazione di scout, e più di giocatori di pallavolo. Perciò da scout diventammo in molti giocatori di pallavolo, che proseguendo hanno determinato la storia della pallavolo a Galatina; una storia che viaggiava parallelamente alla storia della Show boys, nata grazie all’idea di un maresciallo dell’aeronautica, il maresciallo Alessio Bonetti che, insieme ad altri militari e a giovani galatinesi, Piero Forcignanò, Piero De Lorentis, ora professionisti sessantenni, nel campo di pallavolo del Villaggio Azzurro, prima che la squadra si trasferisse a Galatina e diventasse quella grande squadra che sappiamo. La squadra degli scout,  la……………, nasce invece in ambiente scoutistico presso la Chiesa di Santa Caterina, noi eravamo la squadra di ispirazione o di provenienza parrocchiale, e ci contrapponevamo al “laicismo” degli Show boys.

Come mai sei uscito dagli scout?

Sono uscito dagli scout così come sono uscito dall’ambiente della pallavolo, perché si andava delineando dentro di me l’esperienza politica, quando negli scout e negli ambienti della pallavolo prevaleva l’ideologia di destra. Erano scout i fratelli Stefanelli, Beppe e Mario, Tonino Giorgetti, Fernando Valente, Dino Barberini, e altri, erano tutti scout, giocatori di pallavolo e simpatizzanti di destra.

Chi ti aveva indirizzato verso gli scout?

Ci ero arrivato da solo, e penso che sia stata un’ottima esperienza, che spero mia figlia rifaccia, quando sarà più grande, un’esperienza molto formativa, il bambino si crea un’autostima notevole. Ero un bambino che non mangiava nulla. Un giorno i miei genitori vennero a trovarmi sul Pollino e mi trovarono mentre sta me scarfava una patata infilzata in uno stecco: mi procuravo il cibo perché avevo fame. Imparai a mangiare.

In famiglia che tipo di cultura c’era, quale indirizzo ti hanno dato?

Non c’era una cultura di tipo religioso, i miei genitori erano cattolici non praticanti. Nel Villaggio Azzurro c’era una chiesetta che apriva solo la domenica mattina, veniva il cappellano militare, il capitano don Aniello, campano, fascista. Quando, intorno al 1973, cominciai a fare attività politica, lui non approvò le mie posizioni e mi tolse il saluto. Mio padre è di famiglia comunista, contadini braccianti che si sono sempre spaccati la schiena, ma, essendo un militare, non poteva dichiarare la sua appartenenza. E’ rimasto sempre comunista. Mio nonno dopo la guerra portava Giuseppe Di Vittorio col biroccio nei paesi del Salento per fare i comizi. Però voglio anche ricordare che la famiglia di mio nonno alla caduta del fascismo nascose in casa il podestà che correva il rischio di essere linciato dal popolo. Nella famiglia di mia madre c’era una tradizione socialista. Il mio bisnonno Gagliano Fornari, uno scultore di Orvieto, un bel giorno si ritrova in Sardegna, nell’isola di Sant’Antiaco, mandato dai fascisti, da cui fu ucciso. All’epoca lavorava all’ “Avanti” con Benito Mussolini e si dice che abbia avuto una relazione con donna Rachele, prima che donna Rachele diventasse donna Rachele, e Mussolini non digerì tutto questo. Appena Mussolini ebbe la possibilità, mandò il mio bisnonno in esilio. Poi Gagliano si sposò con la mia bisnonna, Marietta, dell’isola di Sant’Antiaco, morta centenaria qualche anno fa.

Tuo padre, che era un militare, ebbe qualche problema per motivi politici?

A livello personale, no, ma a causa mia, sì. So che è stato richiamato più volte dal comandante dell’aeroporto, perché io portavo i capelli lunghi. Alla fine mio padre disse al comandante: “Senta, comandante, in famiglia il militare sono io. Lei gli ordini li può dare a me, ma non a mio figlio”.

Riprendiamo il filo del discorso. Dove hai frequentato la scuola superiore?

Il biennio dell’Industriale per periti elettrotecnici l’ho frequentato a Galatina e poi il triennio a Lecce. A Galatina, nel 1972-1973 facevamo le assemblee, cominciava la vera e propria militanza politica sia all’interno della scuola che nel paese, avevamo il collettivo studentesco. Utilizzavamo la sede del PDUP in vico Topazio. A scuola il clima era buono. All’interno della stessa classe c’erano fascisti e comunisti. Tra i fascisti c’era Mimino Tundo detto Canzeddha, un personaggio simpaticissimo, però era fascista perché la sua famiglia era fascista. Poi c’era Franchino Bianchi, un mio compagno. Facevamo scioperi e occupazioni perché non erano rotte le lampadine, perché i termosifoni non funzionavano d’estate, contro i decreti delegati, scioperi politici e impolitici. L’Industriale di Galatina dipendeva da quello di Lecce, avevamo il preside Boccuni, che stava a Lecce, ma veniva a Galatina quando ci doveva richiamare all’ordine, era di un dispotismo pazzesco: mandava un paio di lettere a casa e l’intervento delle famiglie sistemava tutto. A Galatina c’era il fiduciario Ing. Mario Stasi, una persona di destra, ma molto democratico.

Ricordi qualche insegnante in modo particolare?

Ricordo Angela Chirenti, figlia del sindaco comunista Biagio, insegnava Fisica, era del “Manifesto”, sembrava un’esistenzialista, molto magra, molto bella, vestita di nero, sigaretta in bocca, con lei c’era dialogo, le faceva piacere avere dei giovani studenti con cui dialogare. Poi c’era la professoressa d’Italiano, senza connotazioni politiche, ma ci faceva vivere lo studio della sua materia in modo leggero, allegro, la professoressa Tempesta, una bella e giovane ragazza. Poi c’era l’ing. Mario Stasi, il nostro insegnante di Disegno tecnico, molto competente, ma anche amante della storia. Ci raccontava la seconda guerra mondiale, quando lui era un ufficiale fascista del regio esercito, le battaglie sul campo contro i titini. Rimane famosa un’epica battaglia in cui gli sfuggì Tito dalle mani, <<altrimenti sarei diventato famoso>>, diceva. Le lezioni con lui erano grandi chiacchierate di storia “vissuta”. Lo ricordo con affetto.

Fuori dalla scuola frequentavate la sede del PDUP in vico Topazio. Eravate iscritti al PDUP?

No, noi non siamo mai stati nel PDUP.

Quali rapporti c’erano col gruppo dirigente del PDUP?

I rapporti erano eccellenti. Il PDUP era l’unico partito, a sinistra del PCI, aperto alla società e al Movimento. Per farti capire, a Lecce, all’interno della scuola, io facevo lavoro politico con l’MLS, mentre a Galatina facevo lavoro politico con il PDUP. Per me non era un problema. Non ero iscritto, ma partecipavo alle assemblee provinciali del partito, perché mi piacevano le figure di riferimento del partito, per esempio Luigi Pintor, determinante nella mia formazione. Io lo andavo a sentire quando veniva a Lecce, compravo “il Manifesto”, che allora era l’organo del PDUP, prima di separarsene.

Quante persone frequentavano la sede di vico Topazio?

Trenta, quaranta persone. Ma poi, essendo presenti in tutte le scuole di Galatina, accadeva che, quando si faceva una manifestazione, partecipavano molti di più: trecento persone e anche più.

Su quali temi discutevate?

Contro i Decreti delegati le lotte furono dure. Noi eravamo per il potere all’Assemblea, eravamo per il potere di base, questo era il nostro modo di vedere le cose.

Vi trovavate insieme anche d’estate?

Certo, andavamo in campeggio, mettevamo le tende nella pineta di fronte alla Montagna Spaccata o anche a Frassanito, presso Otranto. Ci siamo andati per sei, sette anni, i campeggi duravano quindici, venti giorni. Le tende in realtà erano delle capanne, salvo negli ultimi tempi, quando comprammo delle tende vere. Vivevamo come selvaggi, non ci si lavava, si mangiava quando si poteva. Ci spostavamo in motorino, ma anche in bicicletta (Gigi Colaci veniva in bicicletta da Galatina a Frassanito) e spesso in autostop. Eravamo cinque sei fissi e gli altri andavano e venivano. In uno di questi campeggi, Marcello Romano mi fece questo tatuaggio [me lo mostra sul braccio destro] che rappresenta una farfalla, ed è in realtà la copia del disegno di copertina del famoso libro di Carlos Castaneda, L’isola del Tonal. Castaneda è un antropologo sudamericano che ha studiato i riti magici delle popolazioni indigene del Sudamerica, dove viene spesso utilizzato il pejote, un cactus molto piccolo con delle proprietà allucinogene fortissime, da cui deriva l’acido lisergico, funghi e muffe allucinogene, che servivano a questi popoli nei riti che li mettevano in collegamento con i propri morti. Noi eravamo molto presi da questi discorsi, e così io mi feci fare questo tatuaggio da Marcello, seduti su uno scoglio tutto nostro davanti al mare.

Quali letture facevate?

Oltre a testi di natura squisitamente politica, per esempio il Che fare, oppure Estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin, leggevo molto la letteratura nord-americana, Henry Miller, Kerouac, ecc., pochissima letteratura europea, poco Brecht, che mi piaceva ma non mi trasportava. Io preferivo la poesia di Ginsberg, Ferlinghetti, tutta la Beat generation. Contemporaneamente amavo molto la musica della West Coast, Crosby, Still, Nasch, Jang,  e la musica nord europea, Bob Dylan. Il metal non l’ho mai digerito. Ricordo quando uscì il famoso film Quadrophenia, che era il nome di un album dei Who, nel quale si scontrano i Rockers e i Mod’s: i Rockers erano i più irrequieti, Harley Davidson, capelli lunghi, giubbotti di pelle, borchie, amavano la musica metal, mentre i Mod’s portavano i capelli corti, vespa, eskimo; a me piacevano di più i Mod’s. C’erano anche questi modelli importanti, così come era importante Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, ecc.

A queste letture o all’ascolto di questa musica come ci arrivavate?

Abbastanza naturalmente. All’epoca c’era una rivista molto bella, “Muzac”, poi leggevamo “Lotta continua”. Inoltre c’erano i compagni più grandi, Riccardo e Corrado De Donno, due fratelli, il cui padre era proprietario di un negozio di fotografia di Via Gallipoli, angolo via Liguria. Nel retrobottega di questo negozio abbiamo scoperto la musica più recente, De Andrè, Gaber, i Jettrhotal. In particolare, Corrado, un finissimo anarchico, era la testa pensante in questo campo. Ora dico che negli Stati Uniti uno dei modi, secondo me, per bloccare la politicizzazione del movimento, oltre alle droghe, fu la nascita, molto aiutata, si dice dalla CIA, dei movimenti religiosi paleocristiani, un cristianesimo vissuto su base hippie. Allora nacque il cosiddetto Jesus people – siamo verso la metà degli anni settanta -. In Italia questo gruppo arriva sotto il nome dei Bambini di Dio, che proponeva una forma di socializzazione molto bella, i Vangeli vissuti secondo le origini, secondo i vangeli apocrifi. Questo gruppo per un certo periodo trovò la mia simpatia e quella di molti altri. Corrado De Donno, che quando faceva una cosa la faceva in modo convinto, adesso vive negli Stati Uniti ed è uno dei capi a livello mondiale di questo gruppo. Per quanto teorizzasse e vivesse l’ateismo, avvicinandosi a questa esperienza, la mente di Corrado andò in corto circuito. Molti sono tornati indietro, lui invece è andato dapprima a Certaldo in Toscana, in una grande tenuta dove si radunavano gli adepti di questa comunità, poi è andato a Londra e infine negli Stati Uniti, è sposato e ha dieci figli. Io decisi di non fare quella scelta radicale e dopo pochi mesi mi allontanai dal gruppo, mentre tutta la famiglia De Donno seguì Corrado.

Furono gli unici?

Quante persone a Galatina hanno fatto questa esperienza, sia pure per pochi mesi?

Molti di quelli che frequentavano il mio gruppo, dieci, quindici persone. Però è significativo che anche a Galatina, ultimo rigagnolo dell’impero, sia arrivato questo gruppo che, secondo una certa analisi, fu un modo per spoliticizzare il movimento.

Allora eravate coscienti di tutto questo?

No. E’ un’analisi che ho fatto, e non solo io, nel corso degli anni.

Dopo questa esperienza tornaste a ruotare intorno al PDUP, poi Democrazia proletaria?

Sì, frequentavamo i compagni più grandi, molto critici nei confronti di noi più giovani che avevamo di queste pulsioni: Luigi Mangia, Antonio Campanella, Apollonio Tundo.

Ricordi qualche problema locale su cui si impegnò il movimento negli anni settanta?

No, non ricordo. Essendo il Movimento fuori dai tavoli istituzionali, ci si impegnava molto nelle discussione teoriche, si dibatteva per esempio sulle tesi congressuali del PDUP, lo scioglimento di Lotta continua, il dibattito verteva sempre su tematiche nazionali. Le battaglie locali, per esempio per la casa sulla zona 167, pur legittime, non erano sentite dal Movimento, non suscitavano in noi più giovani alcuna passione.

Dopo la scuola superiore, sei stato all’università?

Sì, sono stato iscritto per due anni alla Statale di Milano nel 1977-78.

Quali esperienze ricordi?

Una grande solitudine. Avevo una fidanzatina, con cui presto mi lasciai. L’avevo conosciuta al mare, ma le cose cambiarono quando ci ritrovammo a Milano. Ricordo tante assemblee, tanta politica. C’era Scalzone, leader della parte politica-organizzativa del Movimento, ma c’erano anche gli Indiani metropolitani, che a me piacevano molto di più, perché avevano un modo particolare di gestire i propri spazi, di vivere la quotidianità, di apparire. A loro era molto vicino Mauro Rostagno, che a Milano aprì Il Facondo, questo bellissimo centro sociale, che poi si trasforma in un luogo tipo Osholand, quando lui si avvicina alle pratiche arancioni e degli Hare Krishna, meno politici, più mistici. Osho era il leader spirituale degli arancioni, morto qualche anno fa, perseguiva una rivoluzione silenziosa di ispirazione buddista. Poi Rostagno andò in Sicilia e fondò il circuito delle comunità per il recupero dei tossico-dipendenti. A questo punto siamo già nei primi anni ottanta.

Facciamo un passo indietro. Parliamo del periodo in cui a Galatina scoppia il fenomeno della droga. Tu come hai vissuto quegli anni?

Gli anni del riflusso erano già iniziati con il rapimento Moro. Quasi di pari passo, o forse qualche mese prima, incomincia a Galatina la distribuzione di queste polveri magiche, un mercato che dapprima riguarda pochi gruppi, poi diventa un mercato transgenerazionale, transpolitico e transociale. Diventano tossici persone come Marcello Romano e altri che nella propria esperienza nichilista decidono in modo scientifico di fare un’esperienza di questo tipo, una scelta culturale (come Jim Morrison, Jimi Hendrix, i padrini culturali), ma anche tanti altri per frequentazione ambientale si trovano ad entrare in quel mondo senza volerlo e senza non volerlo, né per nescienza né per coscienza. La droga fu uno strumento del riflusso in chi aveva fatto politica e in chi se ne era del tutto disinteressato. Molti vissero quell’esperienza come un momento socializzante, ma si accorsero presto che la droga non era un momento socializzante, e lo consideravano tale solo perché non ne conoscevano altri, si accorsero che era un momento disgregante quando era già troppo tardi. Per fortuna, riuscii a capire che la droga era un’esperienza disgregante, e preferivo frequentare le osterie, preferivo bere un bicchiere di vino in compagnia degli amici, fare una sana chiacchierata, se avevo voglia di distrarmi. La droga non fu una mia esperienza, ma quella di molti amici. Molte volte rimanevo da solo a casa, perché non sopportavo più quella situazione, non mi piaceva l’andazzo. Lì si colloca la disgregazione del gruppo.

Nacque a Galatina qualche comunità di recupero?

Sì, io ricordo quella di padre Minardi, verso la fine degli anni ottanta, prima ai Cappuccini, poi verso Galatone, una comunità che credo ancora esista. Molti nostri amici cominciarono a frequentare queste comunità, a Galatina, e più spesso altrove.

Dopo i due anni di Milano, che cosa fai?

Torno a Galatina, poi riparto a Firenze, dove sto un anno, forse era il 1979-1980. Ho lavorato come perito industriale a Prato in una multinazionale tedesca. Ma il tipo di lavoro non mi piaceva e ci sono rimasto solo per alcuni mesi. Poi, dopo un periodo di disoccupazione, trovai un altro lavoro – sempre a Prato, dove c’era tutto l’indotto della trasformazione del tessile – in una fabbrica. Lavoravo alla “lupa”, un’enorme stanza piena di olio per terra, col pavimento concavo, al centro una sorta di imbuto nel quale spingevamo i tessuti intrisi di olio, che una macina riduceva in mille pezzi. Era un lavoro duro, ma era ben pagato, e lì rimasi per qualche mese. A Firenze – dove conoscevo mio cugino, Giuseppe Cazzato, leader del movimento delle case occupate – ebbi la fortuna di conoscere un gruppo di compagni, che lavorava molto bene, si informavano sull’esistenza di case sfitte, ristrutturate e abitabili, e le occupavano. Io abitai in via dei Servi, una strada del centro di Firenze, vicino al Duomo. Quelle case, a distanza di trent’anni, sono ancora in mano agli occupanti, alcuni hanno comprato a prezzi assai bassi, altri ci abitano in affitto con equo canone. Frequentavo l’ambiente dei centri sociali, l’osteria di Ponte Vecchio, l’osteria dell’Arco di San Donnino, erano questi i luoghi di ritrovo, frequentati da persone che non si inquadravano nelle organizzazioni politiche della sinistra rivoluzionaria, erano autonomi. Poi sono tornato di nuovo a Galatina, per ripartire dopo pochi mesi per Modena, dove sono rimasto fino al 1985.

Facciamo un passo indietro. Non abbiamo ancora parlato della Lega dei disoccupati di Galatina. Come hai vissuto quel periodo?

L’ho vissuto forse con meno entusiasmo di altri. Non mi interessava lavorare a Galatina, ero ancora proiettato all’esterno. Vivevo la Lega dei disoccupati come luogo di aggregazione, frequentato da amici e compagni. Non mi sentivo partecipe delle lotte per l’occupazione, era un’esperienza politica più che un momento di lotta per un fine preciso, avere un lavoro. Producemmo un giornale, Punto Rosso, vicino alle posizioni anarchiche – ci scriveva Pippi Romano -, molto simile ad Azione libertaria (non mi ricordo se venne prima o dopo). Facemmo due, tre numeri, era tutto autoprodotto, lungi da noi il cercare la pubblicità.

Chi frequentava la Lega?

Molti soggetti diversi. Vi si ritrovavano proletari che frequentavano l’ENDAS e il Cin cin bar, che speravano di avere un posto di lavoro, ma anche persone molto più coinvolte dal punto di vista politico; e poi c’erano anche molti compagni del PCI, che allora era un partito di opposizione al potere della DC, ai liberali di Finizzi.

Come reagì la città all’occupazione dell’aula consiliare del Comune?

Ci fu molto clamore. Però non mi ricordo neppure se ne parlarono i giornali. La città non partecipò, non ci diede nessuna solidarietà. Veniva un po’ di gente, ma più che altro per curiosità: noi eravamo il gruppo di pazzi che osava sfidare le Istituzioni. Probabilmente quella occupazione fece pensare, perché una cosa del genere non era mai successa, e quindi forse si venne a delineare nella testa delle persone la possibilità, se non di cambiare le cose, almeno di urlare contro le assunzioni clientelari.

Quale fu il vostro rapporto con i partiti della sinistra?

Cercarono di cavalcare la protesta, di guidare, di mediare e di prendersi il merito di lotte che nulla avevano a che fare con il loro modo di fare politica. Noi dovevamo diventare la medaglia al petto di troppe persone, di Paolo Forte, Lucio Romano, ecc. Provavamo fastidio verso tutto ciò. Per farti un esempio, parlando durante l’assemblea dell’occupazione, Forte usava sempre il “noi”; noi rispondemmo “parla per te, che per noi parliamo noi”.

Se la città rispose con una certa indifferenza, quale interesse i partiti di sinistra potevano avere a cavalcare la protesta?

Forse costoro speravano di trasformare in consenso della città questo tipo di evento. Di fatto poi ciò non avvenne, “le masse non si sollevarono” e noi rimanemmo davvero orfani. Se ci furono degli “incidenti” mafiosi, ciò accadde proprio perché si capì che noi eravamo davvero orfani di ogni tipo di potere e quindi potevamo essere colpiti senza ulteriori conseguenze.

Vuoi precisare i termini di questi “incidenti” mafiosi?

Io non ero presente, ma mi riferirono che alcune persone volevano cercare di entrare in Comune per farci sgomberare; ne nacque un diverbio con alcuni compagni, e la cosa diventò pericolosa, tant’è che la sera dovettero essere accompagnati a casa. In quella fase, gente del PCI intervenne per sedare, per mediare.

Pensi che questi elementi della malavita locale agissero autonomamente oppure fossero mandati, ispirati da qualcuno?

Posso fare delle ipotesi. Se vennero lì per mandarci a casa, è ovvio che furono mandati da qualcuno. Se invece vennero lì perché volevano solo provocare, è possibile che l’abbiano fatto autonomamente. Io propendo più per la prima ipotesi, ma non ho elementi oggettivi per giudicare.

La fine della Lega dei disoccupati e il rapimento Moro determinano il disfacimento del Movimento a Galatina. Possiamo mettere in relazione questo disfacimento con la tua partenza da Galatina per il Nord?

Il rapimento Moro, a Galatina come altrove, produsse nel giro di poche ore – io ricordo benissimo quel giovedì mattina – un cambiamento notevole. C’era la percezione che qualcosa sarebbe cambiata in modo irrimediabile, un clima pesante, derivante dal fatto che da una parte ti veniva richiesto di partecipare a questo allarmismo, al lutto nazionale inquadrabile all’interno dei partiti istituzionali, e dall’altra derivante da un certo smarrimento, quasi da paura della militanza exstraparlamentare. Il riflusso inizia quel giorno, in quelle ore, anche all’interno della Lega. Ci fu un dibattito politico fortissimo, che portò all’allontanamento tra compagni, che vedevano lo stesso problema in modo radicalmente diverso. Alcuni compagni giustificavano le BR, simpatizzavano con loro, altri credevano – come io credevo e credo – che quel rapimento fosse la più grande provocazione nei confronti del Movimento, oltre che un atto di ingiustizia nei confronti di Moro, che poi riscosse molte simpatie per le famose lettere, nelle quali mise in stato di accusa – più lui che la sinistra – il potere. A Galatina succede quello che ritengo succeda in tutta Italia, a Galatina succede in silenzio, chi si faceva, continua a farsi ancora di più, alcuni si lasciano andare, alcuni se ne vanno, si diventa grandi, finiscono i sogni, il momento dell’utopia. Allora io partii, mi allontanai per vedere che succede altrove, avevo vent’anni.

Cambiamo argomento. Raccontami il tuo soggiorno modenese.

Dopo l’esperienza di Firenze, vado a Modena nei primi anni ottanta. Appena arrivo, vado a vivevo in via Coltellini, nel collegio universitario, che a Modena è un’istituzione. Ero ospite di alcuni amici. Trovai da lavorare, il lavoro non mancava, io lavoravo in Posta, in Comune. Cerano molti centri di aggregazione politica e culturale, dal “Vienna”, un circolo culturale specializzato nel cinema, dove frequentai un corso per video-operatore e regista; poi c’era il “Primo maggio”, un circolo molto politico, fondato da Bruno Andreoli di Democrazia proletaria, attualmente di Rifondazione; la “Scintilla” era un circolo anarchico; lo “Spazio”, che io frequentavo perché lo gestivano degli amici che vivevano con me, era dell’AIPS, Ente di promozione sportiva, vicino al PSI, molto aperto verso i giovani. Noi lavoravamo molto con gli studenti greci del PASOK. Fu un periodo molto bello, pieno di impegni e di feste.

Come mai tornasti a Galatina nel 1985?

Mi ero stancato per il freddo dell’Emilia – sognavo il mare, sognavo la luce -, ma anche perché ogni cosa che tu desideravi era liofilizzata e venduta, non c’era più il gusto di creare, di fare e cercare cose nuove. E’ il limite del modello emiliano. Mi ero stancato di questo falso socialismo, di questa falsa società opulenta in tutto, pure nel saperti rivendere a buon prezzo i tuoi sogni, i tuoi desideri.

Quale situazione trovasti al tuo ritorno a Galatina?

Molti dei miei vecchi compagni erano andati via, trovai molta disgregazione. Mi avvicinai ad un gruppo di ragazzi più giovani di me, conobbi Luciana, e li frequentai. Con alcuni di loro, feci l’esperienza del Centro sociale di Via Marche, in particolare insieme a Massimiliano Martinez, che, pur essendo più giovane di me, era una bella testa.

In quali anni si colloca il Centro sociale di Via Marche?

Dal 1986 fino alla fine degli anni ottanta.

Come nasce il Centro sociale?

Nasce su di un progetto del Centro di interesse giovanile, di cui era presidente non ricordo se Dino Valente o Enzo Del Coco, e doveva servire come luogo di aggregazione ruotante intorno gli interessi dei giovani. L’Amministrazione comunale diretta dal sindaco Zeffirino Rizzelli finanziò il Centro sociale, spendendo molti soldi. Riuscimmo a mettere su una serie di laboratori, di teatro, di fotografia, di musica, avevamo una camera insonorizzata; contemporaneamente, il Centro era diventato un luogo di elaborazione teorica e culturale, che cominciava a esprimersi autonomamente rispetto alla sua provenienza, il Centro di interesse giovanile.

Quali attività puoi ricordare?

Fummo i primi a parlare del tarantismo in modo diverso rispetto a come oggi se ne parla per i turisti, nel senso che, sapendo che il tarantismo era inquadrabile nella fenomenologia della trance, individuammo in alcuni studiosi le persone competenti a trattare l’argomento: George Lapassade, docente di etnosociologia alla terza Università di Parigi, Piero Fumarola, docente della stessa materia all’Università di Lecce, Ginio Santoro, docente di Storia del teatro a Lecce, don Pippi Tundo, studioso locale di etnosociologia oltre che di storia delle tradizioni religiose; venne anche Renato Curcio, che aveva studiato il fenomeno della trance in carcere. Per lui il carcerato che sogna l’evasione, che sogna di stare fuori dal carcere sperimenta in proprio il fenomeno della trance.

Come fu accolta a Galatina la presenza di Renato Curcio?

Venne un sacco di gente, di giovani, tutti molto interessati. Sui giornali ogni giorno c’era scandalo e fastidio per la presenza di Curcio.

Quale altra iniziativa fu presa nel Centro sociale?

Organizzammo un seminario sull’omosessualità, intitolato “Venite fuori, desideri!”. Si capiva che c’erano delle pulsioni o delle curiosità verso l’omosessualità da parte di molti giovani, ma per vergogna rimanevano represse e allora invitammo Nichi Vendola, che venne con la scorta – all’epoca era membro della Commissione antimafia – e parlò a numerosissimi giovani, che fecero molte domande. Poi facemmo un corso di fotografia e camera oscura, che durò per molto tempo – io stesso mi sono appassionato a questa materia -.

Quale provenienza scolastica e sociale avevano i giovani che frequentavano il Centro sociale?

La provenienza era assai varia. La cosa bella era che c’erano tanti giovani che non andavano a scuola, così come c’erano molti studenti, fra cui anche molti giovani rampolli di buone famiglie galatinesi. I rapporti erano stretti e belli, fu un bel momento di socializzazione.

Come finì il Centro e perché?

Un gruppo di giovanissimi non poteva mantenere una struttura del genere. Quando il sindaco Rizzelli, spinto dai partiti della sinistra – c’era una giunta di centro-sinistra – e da altri, decise di chiuderlo, disse: “Io posso non chiuderlo, ma dal punto di vista economico dovete gestirlo da soli”, il che significava di fatto chiuderlo. All’epoca erano state comprate fotocopiatrici, televisori e molto altro materiale.

Che fine ha fatto questo materiale?

Non si sa. Dopo il Centro sociale, il nulla. La chiusura del Centro sociale fu vissuta come un lutto, i giovani furono ributtati in piazza, molta gente che nel Centro sociale trovava un luogo di riunione di studio furono respinti nelle strade della città. Il Centro non era più inquadrabile nel progetto che il Comune aveva finanziato, il progetto del Centro di interesse giovanile. Il Centro sociale era divenuto un soggetto autonomo, sfuggiva ai partiti e a coloro che lo aveva ideato, cominciarono a dire che era un luogo in cui ci si drogava liberamente, in cui le ragazze venivano per prostituirsi, dove trovavano rifugio gli studenti che non andavano a scuola, ecc. Secondo me nella chiusura del Centro sociale ci sono delle responsabilità dei rappresentanti del Centro di interesse giovanile, Enzo Del Coco, Daniela Vantaggiato, Dino Valente, che premettero sul sindaco per chiudere il Centro sociale, che sfuggiva alle loro mani. Il loro progetto era diverso, di salsa più cattolica: c’è chi si sente profeta ed ha bisogno di apostoli che lo seguano. Volevano entrare in rapporto con le parrocchie, erano ecumenici, capanniani.

Che cosa avviene dopo la chiusura del Centro sociale?

Nulla, non c’è più nulla, almeno nulla di analogo al Centro sociale. C’è l’ARCI, ma è una cosa diversa. Ci sono pochi giovani nell’ARCI, l’ARCI è un cenacolo di persone che hanno voglia di proporre momenti culturali, ci sono molti intellettuali, Giuseppe Taurino, ci sono io, Daniele Ferrocino, Luciana Maciullo, Sergio De Simone. L’ARCI non è propriamente un centro di aggregazione giovanile.

Ricordi qualche particolare iniziativa dell’ARCI?

Sì, facemmo un bel giornale, “Il ficodindia”, uscirono una decina di numeri, il nome lo inventai io e Tonino Baldari. Il ficodindia è spinoso, nasce sui muretti a secco, là dove non si scommette mai che possa crescere qualcosa, ed il frutto è bello e buono. Poi facemmo un’indagine molto approfondita sul mondo giovanile, un questionario – sulle droghe, sulle abitudini, ecc. – distribuito in tutte le scuole di Galatina, a cui gli studenti risposero in massa, dandoci una massa di informazioni assai utili. L’artefice di questo immane lavoro fu Daniele Ferrocino. Purtroppo la sintesi finale del lavoro non ci fu. Nel frattempo L’ARCI si sciolse e non ci fu alcun esito.

E dopo l’ARCI cosa accadde?

Più nulla, si vive di rapporti interpersonali, di amicizia; nel frattempo io decido di iscrivermi a Rifondazione comunista, seguo le vicende di questo partito.

Che cosa rimane, secondo te, nelle nuove generazioni, della cultura degli anni settanta e ottanta?

Secondo me, allora un seme è stato buttato, ed è rimasto. Mi fa piacere che ci siano moltissimi giovani che si avvicinano alle tematiche politiche, sia per moda che per atteggiamenti che per studi. Lo si vede quando tornano gli universitari d’estate. C’è un desiderio di comunità, ma è diverso rispetto ai tempi della mia giovinezza. E’ cambiata la società, i suoi modelli, trent’anni fa si poteva stare insieme in spiaggia, intorno a un falò, senza avere una lira in tasca e con una bottiglia di vino, e passare delle bellissime serate. Oggi i giovani lo fanno solo la notte di san Lorenzo, perché questa è la moda, vedere le stelle cadenti, lasciando la spiaggia sporca per i bagnanti del giorno dopo. Quei modelli di aggregazione non esistono più, oggi bisogna avere, non essere. Questo vale per le associazioni o per i partiti attuali. Oggi c’è un movimento di opinione, non c’è il Movimento, il giovane di destra non si differenzia dal giovane di sinistra, ci sono opinioni diverse, ma non diversi modelli, il modello è unico, la bella macchina la vuole l’uno e la vuole l’altro.

Oggi sarebbe riproponibile un nuovo Centro sociale sul modello di quello degli anni ottanta?

Non lo so. Non so chi potrebbe frequentarlo. Probabilmente i giovani di oggi ci verrebbero a chiedere: “Dopo aver seguito un seminario, cosa ottengo, avrò un portfolio?”.

[Gioventù salentina, Edit Santoro, Galatina 2007, pp. 81-108]

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