Prima dei testi il contesto
è stato ben illustrato da Mario Lombardo
con il recupero delle testimonianze letterarie e delle tracce
epigrafiche in lingua greca e messapica sulla presenza degli antichi greci e il Salento meridionale, fornendo un solido sostrato
sulla controversa questione dell’origine bizantino-medioevale del griko e della definitiva formazione
dell’enclave ellenofona. Silvano Palamà ha voluto raccontare il territorio,
circoscrivendo il perimetro dell’area grecanica per ricavare elementi di identità
sopravvissuti all’oscuramento culturale con il chiaro obiettivo di risvegliare le coscienze
assopite da troppo tempo e aprire una nuova stagione di studi che possa
favorire un processo di crescita nei settori chiave della patrimonializzazione
della lingua. Proprio su questo terreno
Eugenio Imbriani ricorda che il griko abbia
ormai perduto la sua efficacia comunicativa e non può più evitare l’estinzione
nonostante gli sforzi profusi in direzione di un suo utopico recupero. La
lingua tuttavia rimane per Antonio Romano l’unica fondamentale risorsa per
riscoprire l’identità culturale dell’intera area ellenofona, ricostruita nella
sua essenzialità attraverso i più importanti lavori dei linguisti del secolo
scorso, per soffermare poi l’attenzione in modo particolare sulla
pianificazione conseguita nei primi decenni del terzo millennio e sulla necessità
inderogabile di accrescere
gli studi di settore per tenere
vive e aggiornate le conoscenze acquisite. Ma perché scrivere in griko si chiede Salvatore Tommasi nel suo suggestivo saggio, dando una risposta apparentemente scontata se messa in relazione alla sua sopravvivenza linguistica, che pure non è un dato trascurabile, ma acquista prospetticamente chiari valori identitari se esercitata dentro norme semantiche rigorose, foriere di svelare la civiltà contadina che l’ha custodita e divulgata. Marcello Aprile saggiamente preferisce partire da lontano per dare conto di una recente inchiesta lessicale svolta a Calimera, le cui risultanze linguistiche possono essere documentate e spiegate solo attraverso la contaminazione di parole greche rifluite nel dialetto romanzo, arrivando alla conclusione di una simbiosi tra le due lingue che permane nel tempo sino ad arrivare ai nostri giorni. Un terreno di ricerca suggerito anche da Francesco G. Giannachi che, posizionando la sua ricerca in età angioina con la messa a punto della biografia di un cavaliere di origine francese con legami a Costantinopoli, indica nuovi elementi di contatto con l’Oriente greco, contatti che avrebbero consentito al griko salentino di esistere e rafforzarsi in seguito agli arrivi di feudatari franco-greci. In età aragonese mutano le circostanze, ma questa commistione linguistica può avere altri inediti approdi come si può evincere dal saggio di Vito Luigi Castrignanò, che recupera una supplica in volgare di fine Quattrocento indirizzata alla principessa Anna Colonna, moglie del principe Giovanni Antonio Orsini del Balzo, utile anche a produrre verifiche lessicali ad ampio raggio, fuori dal tradizionale perimetro della Grecìa salentina. Alcuni significativi esempi di osmosi linguistica vengono forniti da Daniele Palma, confermando ampiamente la tesi sostenuta da Marcello Aprile di contiguità tra l’enclave greca salentina e le parlate romanze e sottolineando gli influssi francofoni del dialetto griko nei registri parrocchiali almeno sino alla fine del XVIII secolo. Leonida Michelis, invece, si aggrappa al mare come spazio di collegamento tra due terre proiettate a costruire legami culturali di lunga data, richiamando non a caso la metafora dell’icona per dare senso alla sopravvivenza secolare del griko. Giovanni Giangreco si mostra partecipe e convinto che si può evitare la scomparsa della lingua e delle tradizioni grecaniche solo con la realizzazione di una biblioteca specializzata, integrata da un museo che conservi le testimonianze superstiti offerte dai reperti archeologici e monumentali, se veramente si vuole trasferire questo patrimonio alle generazioni future.
Sul terreno delle testimonianze più rilevanti Paul Arthur si affida ai
menhir che connotano il paesaggio
dell’intera provincia salentina, senza escludere l’enclave ellenofona, per documentare i processi di
evangelizzazione nel periodo altomedioevale e articolare puntuali
riflessioni sul ruolo di raccordo e di contaminazione esercitato dall’arte e
dal simbolismo raffigurativo. Un esempio calzante in questa direzione viene offerto
da Roberta Durante
che decifra e commenta gli affreschi della cripta di san
Sebastiano di Sternatia, mentre Pierpaolo De Giorgi si sofferma più estesamente
sulle tracce musicali e coreutiche per documentare l’esistenza di una linea di
continuità storica e linguistica tra la civiltà
bizantina, la Grecìa
salentina e la Magna
Grecia.
Un elemento connotativo della Grecìa salentina resta sul piano istituzionale- religioso la liturgia bizantina, che permane funzionante oltre il dovuto, conoscendo solo tardivamente la sua definitiva estinzione. Ancora in epoca post-tridentina, come documenta Pantaleo Palma nel suo contributo, le formule usate nella celebrazione del battesimo e del matrimonio rinviano al rito bizantino, resistendo al processo di una latinizzazione forzata e conservando un’identità propria attraverso una presenza corposa di preti e chierici ammogliati. Nel lungo periodo la romanizzazione delle chiese dell’enclave ellenofona si presenta come un obiettivo mai pienamente raggiunto, segnando fasi contraddittorie e non sempre di segno univoco. Come si desume anche dal saggio di Mario Spedicato si torna alla normalità istituzionale e alla disciplina vescovile solo con l’arma canonica dell’assegnazione dei benefici ecclesiastici, di fronte alla quale si sciolgono le ostinate resistenze del clero parrocchiale, a cui preme in primo luogo non perdere il diritto di accedere alla rendita economica e a conservare i privilegi di antico regime. Alberto Rescio allarga l’orizzonte della ricerca, indagando le dinamiche sociali e migratorie all’interno della Grecìa salentina (con particolare riferimento alle comunità di Martano e Calimera, a cui poi associa Borgagne) nel periodo di maggiore conflitto tra l’Europa e l’Impero Ottomano, evidenziando la particolare componente clericale, la strutturazione spaziale e sociale, l’onomastica greca ed ebraica, elementi tutti connotativi di un’area identitaria inconfondibile.
Un capitolo autonomo, ma non disgiunto dai temi e dai problemi sinora richiamati, fa parte la corposa produzione poetica dell’area grecanica raccolta nei “Morolòja”, ben trattata da Giorgio Vincenzo Filieri, dove si ritrovano gli affascinanti canti funebri, in cui l’amore per i propri defunti si fonde con il dolore per le perdite patite. Testi considerati tra i più belli che hanno resistito all’usura del tempo e che ancora fino a qualche decennio addietro venivano cantati in occasione di eventi luttuosi, analizzati in profondità per far emergere, insieme al peso del preambolo, la struttura completa del canto della prefica; argomentazioni che sono servite ad Anna Stomeo per innestare il suo saggio proprio sul tema delle prefiche al fine di dimostrare che in questi versi si conserva la normatività della lingua come ordine della comunità, ravvisando prospetticamente la restituzione dei valori collettivi nell’ottica di un ordine “simbolico della madre”.
Suggestivo e politicamente proiettato alle nuove generazioni resta, infine, il contributo di Paolo Protopapa sulla Grecìa e Democrazia, costruito sull’originalità del patrimonio linguistico, storico e culturale dell’area ellenofona come processo di riscoperta di valori civili e popolari utili per rinnovare un’alleanza tra saperi e rappresentanza politica e nello stesso tempo capaci di orientare scelte che custodiscano gelosamente quanto ereditato e conservato. Chiude il volume un saggio di Francesco De Luca incentrato sulle fonti archivistiche, sulla loro mirata selezione, sul metodo corretto per stabilire autenticità e veridicità dei documenti, quasi un pro-memoria per le future ricerche che dovrebbero interessare anche la Grecìa salentina.
Lecce, Università degli Studi, febbraio 2024