Bisogna dirlo chiaramente: per fare il critico, il filologo, lo studioso di letteratura – e forse per fare bene qualunque cosa – bisogna avere un’idea, un’idea forte, che diriga tutte le altre e le metta in ordine. E che Marti questa idea ce l’abbia, anzi l’abbia sempre avuta, questo è fuor di dubbio. Essa si può riassumere con le parole dello stesso Marti: “l’amore della verità storica, che è al di sopra di tutto” (p. 30). È questo amore che rende vive le pagine dello studioso e lo fa sobbalzare quando i suoi “occhi mobili e vivaci” (si legga l’autoritratto di p. 46) scorrono pagine come quelle per esempio di Umberto Carpi: “Ecco la “Scuola Storica”, mi sono detto; ma rinnovata e tirata a lucido e rinvigorita di storia altra” (p. 29), che suscitano la sua approvazione. Il lavoro del critico, dunque, si configura “come indagine storica complessa, integrale, completa; in essa convergono, alla ricerca della verità testuale, tutte insieme le componenti, per quello che è possibile e giusto, e ciascuna per la sua parte: storia, cultura, società, economia. Una sorta di esplorazione preventiva, di accertamento dei fatti nella composita articolazione del reale, a preparazione della conclusiva ipotesi di verità” (p. 31). Come si vede, l’accento batte forte sulla parola “verità”, con qualche attenuazione dovuta all’ “ipotesi”, perché è questa “ipotesi di verità” che lo studioso si assume il compito di ricercare, con un’indagine a tutto campo che ha per oggetto “la verità vera e documentata” (p. 30), cui si perviene sbarazzandosi delle ipotesi prive di fondamento. Per esempio, a proposito di Dante, Inferno X, 62-63, Marti elenca “sette congetture, proposte per dieci parole in un verso e mezzo. E perché poi? per rilevare, per sei di esse, l’assoluta improponibilità, e toglierle infine di mezzo” (p. 4). Allo stesso modo, in garbato dissenso con Giancarlo Vallone a proposito della data di nascita del Galateo (per Vallone, che riafferma la tesi di Donato Moro, è il 1448, per Marti il 1446), scrive: “Chi parte dall’incerto e dal discutibile… [si preclude] fatalmente l’acquisizione della verità” (p. 80).
Lo studioso, dunque, si muove entro un recinto ampio, ma ben delimitato, “fra testo, storia, tecnica espressiva e appoggi bibliografici” (p. 35); laddove manca uno di questi elementi, l’opera di ricostruzione critica è difettosa e la verità si allontana. Si veda, per esempio, il giudizio sull’edizione in tre volumi apparsa nel 2008 nei Meridiani di Mondadori col titolo generale I poeti della Scuola Siciliana, “che senza alcuna retorica esagerazione, appare davvero monumentale” (p. 59); eppure, “quello che manca, secondo me, all’impianto, è la robusta spina dorsale della storia…” (p. 64).
Come fare, allora, per giudicare un’opera, quali sono i principi da cui non è possibile prescindere? Risponde Marti, a proposito di Dante: “Secondo me, se non si traccia con fermezza estrema e con salda dottrina una linea divisoria fra schemi e miti letterari da una parte, e realtà biografiche dall’altra…, c’è il pericolo che rimanga falsata la reale personalità di Dante, quella vera, o che non sia integralmente conosciuta e acquisita” (p. 42). Il critico separa (criticare, dal gr. krinein, separare, distinguere, interpretare) ciò che il poeta (gr. poietés, il costruttore, il fabbricatore, l’autore) ha mescolato e dissolto, risolto nell’opera. C’è da chiedersi se in ciò non sia ravvisabile un duplice, diverso scopo, del critico e del poeta, e la loro irrecuperabile estraneità. Ma non è questo il pensiero di Marti. La sua pagina, invece, è sempre animata dalla fiducia che dal certo, prima o poi, si possa attingere il vero della creazione poetica, come recita il titolo vichiano di un suo importante saggio, Dal certo al vero. Studi di Filologia e di storia, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1962, nel quale queste tesi sono state per la prima volta e già in modo definitivo elaborate (si legga in particolare il capitolo dal titolo Realtà biografica e schemi letterari, pp. 315-326, ma anche quello dal titolo Critica letteraria come filologia integrale, pp. 339-346, già apparso ne “L’albero” del 1949!). Inoltre, alla domanda se la biografia influisca sulla creazione poetica, Marti risponde così: “A me (e a quanti altri insieme a me?) pare infatti impossibile che le condizioni psicologiche, ideologiche, biologiche e sociali dell’autore (e sia pure un Dante Alighieri) non incidano, in qualche misura, nell’atto della creazione poetica, e – se ben conosciute e valutate – non contribuiscano alla autentica interpretazione critica di essa. Sono convinto ormai che questo sia un punto d’importanza assoluta; anche se mi rendo ben conto della sua rischiosità, e della sua possibile vischiosità” (p. 56).
Conoscenza storica, letteraria, biografica, culturale, ecc., documenti alla mano: con questo bagaglio, e con mille attenzioni, il critico potrà accostarsi all’opera per tentare di coglierne la verità. Questa verità sembra quasi un lontano e mitico oggetto del desiderio, che si tenta di raggiungere con fatica, studio e assoluta, ascetica dedizione, perché tale rimane sempre, pur dopo ogni certa, inequivocabile acquisizione. Questa verità della storia, che Marti ha inseguito per tutta la sua vita di studioso, e continua a inseguire, con i risultati che tutti conoscono, ai nostri occhi appare essere una “costante e sempre ferma esigenza, di carattere trascendente e insomma “religioso”, di dare un senso, un significato, un valore finalistico alla esistenza” (p. 100). Marti mi perdonerà se ho riferito a lui le parole che egli usa a proposito di Leopardi, utili a “capire e sentire Leopardi veramente fino in fondo” (p. 100, il corsivo è mio, naturalmente). Gli è che, com’egli stesso scrisse nel lontano 1962 (Dal certo al vero, cit. p. 316), citando Erich Auerbach, “ciò che noi in ogni opera comprendiamo ed amiamo è l’esistenza di un uomo, una possibilità di noi stessi”.
Molti auguri, Mario Marti, e lunga e felice vita a lei e alla sua consorte Franca!
[“Il Galatino”, 29 maggio 2009]