di Antonio Mele / Melanton
Esattamente un secolo fa, in piena prima guerra mondiale, in un contesto sociale dilaniato – come fin troppo spesso avviene – da violente contrapposizioni di etnie, culture, religioni, poteri e interessi economici, in un’epoca da considerarsi peraltro molto lontana, se non proprio remota, dalle stupefacenti conquiste e meraviglie tecnologiche di oggi, un piccolo uomo si immergeva in assoluta solitudine nel mistero e nella poesia dell’Universo, e comunicava con l’ignoto, teorizzando e cercando risposte alle proprie domande, in una corrispondenza quasi del tutto impossibile.
Quel piccolo uomo, nato in una famiglia ebraica a Ulma, in Germania, il 14 marzo 1879, era – ed è, essendo immortale – Albert Einstein.
Un uomo-simbolo che, più d’ogni altro scienziato, rappresenta per l’umanità la curiosità, il desiderio di esplorare, configurare e conoscere l’inconoscibile, in un rapporto perfino poetico con l’Universo sconfinato, di cui siamo piccola ma non minima parte.
Allo studio, alla teoria, e allo sviluppo della fisica (che gli valsero il Premio Nobel nel 1921) Einstein accompagnò sempre la sua attività di filosofo, mosso tanto dalla profonda ammirazione che aveva per i sistemi speculativi di Spinoza e Schopenhauer, quanto soprattutto da una curiosità personale inesauribile, che lo sollecitava a soddisfare la sua perenne sete di conoscenza.