Del topos degli assediati che gettano cibo sugli aggressori si hanno testimonianze diverse i cui contorni possono essere sfumati o prevedere motivazioni più o meno razionali. È ovvio ad es. che esaurite le munizioni, si ricorra all’olio bollente o altri liquidi caldi, l’acqua (o il latte, se si possiede bestiame in grado di produrne) per causare ustioni e scoraggiare l’assalitore. È meno ovvio che si buttino generi di prima necessità per mostrare che si hanno risorse infinite che garantiscono l’autonomia per lunghi periodi di isolamento, laddove i “poveri” aggressori, all’esterno, abbandonano l’assedio perché invece sono senza provviste (?) e valutano l’inutilità di proseguire nell’assedio di una comunità arroccata che può resistere più a lungo di loro. Si tratta, in questo caso, della nota leggenda delle “ressources augmentées” (o di Dame Carcas, cioè del lancio di derrate alimentari per mostrare la ricchezza di risorse disponibili), spesso ricordata in relazione alla difesa delle fortezze francesi dei signori des Baux (proprio della famiglia del Balzo, che ha governato in tutta l’Italia meridionale) e proliferata in tutta Europa e nel Mediterraneo (come mostrano le carte della sua diffusione geografica pubblicate da Langlois 2020).
La consapevolezza di una poligenesi indiscriminata e dell’adattamento del tema a episodi pseudo-storici specifici di singole comunità mostra come la diffusione di questi racconti dipenda da disposizioni all’affabulazione ludica e alla mitizzazione del luogo d’origine da parte degli abitanti. Ovviamente, considerati i limiti d’irrealtà e la non-verosimiglianza di alcuni elementi di questi temi narrativi, risulta evidente come la loro plausibilità dipenda da quella che nel linguaggio della produzione e distribuzione di prodotti audiovisivi si chiama oggi “sospensione dell’incredulità” (suspension of disbelief).
È legittimo che ciascuno di noi rilassi occasionalmente il suo monitor logico e si lasci incantare dalle favole, scivolando nell’affascinante mondo dei racconti popolari e della letteratura fantastica. Occorre però farlo nella consapevolezza che lo sfondo storico nel quale questi talvolta si collocano fornisce solo un pre-testo e che, per quanto spesso sfumati i confini, è utile distinguere tra documentazione storica e sviluppo creativo dell’intermediario portatore / narratore.
Il fatto che, diffondendo una notizia, non si distinguano le informazioni accertate dalle opinioni è argomento di approfondimento di riflessioni sulla comunicazione umana (già da parte dei filosofi di epoca classica) e di saggi sui media (per i quali si rimanda solitamente almeno a McLuhan 1968, 1972). Risulta problematica, infatti, la condizione in cui una fonte divulgativa non sottolinei il diverso carattere delle informazioni che fornisce e non chiarisca invece, anche solo sommariamente, quali siano gli elementi creativi e quali i fondamenti storici. Le situazioni in cui questo non accade fanno nascere perplessità generali sulla civiltà di un Paese, e sulla sua posizione in un mondo che qualcuno accusa ciclicamente di essere eccessivamente positivista o, comunque, incline a favorire atteggiamenti logico-deduttivi (e dove oggi, nonostante i proclami, sembra ormai quasi un delitto possedere questo tipo di intelligenza).
Preoccupa infatti quando a diffondere conoscenze non condivise e non verificabili sono canali di divulgazione che l’utente/destinatario ritiene di accreditare come affidabili sul piano della qualità delle informazioni (e non solo su quello del divertissement). Sul giornalismo in Italia, ha già espresso un giudizio lapidario e, purtroppo, oggettivo, Michele Loporcaro, nel suo “Cattive notizie” (2005), criticando quegli atteggiamenti che – motivati forse da intenzioni orientate alla sdrammatizzazione – si esercitano su ambiti di informazione particolarmente delicati, su argomenti decisamente più seri di quello su cui qui mi dilungo.
Nel caso della storia locale di diversi centri italiani, nelle varie trasmissioni a puntate della nostra TV, pubblica e privata, nazionale e regionale, o su blog e piattaforme social, capita di sentire/leggere notizie che riprendono luoghi comuni, credenze popolari e ricostruzioni fantasiose che non si fa fatica ad accettare quando il latore distingue nettamente il dato accertato dalla narrazione creativa.
Ora però, è difficile accettare una situazione in cui le considerazioni apparentemente assennate dei curatori di un servizio televisivo, proposte come verità conclusive, si presentano persino più inverosimili dei frammenti di racconto mitico montato partendo dalle dichiarazioni degli avventori intervistati, apparentemente imboccati o, comunque, abbagliati dalla fervida fantasia di qualche buontempone.
Eppure anche questo accade, proprio in un caso in cui il topos delle “ressources augmentées” è stato rievocato mediaticamente in una narrazione relativa alle tradizioni popolari di Parabita (Lecce). Nel corso di una trasmissione andata in onda nell’estate 2023, gli esiti creativi dei partecipanti alla realizzazione del servizio televisivo hanno associato l’usanza locale di consumare cibi a base di ricotta, in occasione di una particolare festività locale, al lancio di ricotta sui malcapitati aggressori del castello di Parabita che in un’epoca imprecisata l’avrebbero assaltato, abbandonando poi l’assedio in seguito alla constatazione che la disponibilità di masserizie degli assedianti avrebbe consentito loro di resistere a lungo. Quest’argomento è inverosimile per diverse ragioni e va distinto dalla realtà storica, risultando posticcio anche nella tradizione locale (cfr. Langlois 2020, che lo documenta per la località siciliana di Comiso).
Sull’origine di storie e leggende locali come queste, nelle varie comunità disperse nel mondo, sono fiorite centinaia di pubblicazioni, più o meno serie e affidabili a seconda della temperie scientifica e culturale delle varie epoche.
Miti di fondazione, racconti di imprese rocambolesche etc. si declinano nei modi più svariati sin dalla notte dei tempi.
Considerando la polimorfia, la mole di varianti e analogie che si possono riscontrare, l’argomento si rivela molto interessante per gli studiosi che sanno da quali fonti partire.
Circolano invece opere divulgative di cultori che, ignari di tutto questo, e spesso trascurando persino le tradizioni del paese accanto, rivisitano le narrazioni locali storicizzandole e ammantandole di giustificazioni spesso solo pseudo-scientifiche.
Molte di queste si autoalimentano da secoli e finiscono a loro volta per diventare fonti alle quali i cittadini ingenui attingono più o meno fedelmente, trasmettendone i contenuti, spacciati per verità ricevute, a nuove generazioni di portatori.
Dicerie vecchie e nuove meritano senz’altro che qualcuno investa tempo a riprenderle, circostanziarle, commentarle, confermarle o, persino, screditarle. Rientrando anch’esse nella tradizione possono infatti inquinare dati che in qualche caso hanno un fondo di verità, oppure magari cancellano dettagli considerati inutili nello spirito di un’epoca e che invece in un’altra avrebbero potuto offrire una pista per una riconnessione con nuovi elementi e per una migliore ricostruzione di eventi storici.
Con racconti attorno a racconti, in metanarrazioni che interferiscono con i canali ideali della diffusione delle informazioni, disseminando dubbi e introducendo elementi di uno storicismo presuntuoso e pretestuoso, negli ultimi decenni anche i media, la televisione prima e il web poi, si sono inseriti nel percorso di alterazione del testo originario (che si ha bisogno di definire autentico proprio in relazione a queste intromissioni). Abdicando alla loro missione di diffondere notizie imparziali e verificate, TV e radio (i social non hanno mai promesso di essere veritieri), oltre a diffondere fake-news, fanno da cassa di risonanza (e di diffusione su più larga scala) di alcune leggende, credute storia.
E tutto ciò, come già introdotto, si è presentato nella mediatizzazione di alcuni fatti specifici relativi all’identità storica popolare di un paese del basso Salento, Parabita.
In una puntata di una serie dedicata ai diversi comuni della regione, una televisione locale ha impostato il suo servizio su un tema presentato scherzosamente come “guerra delle ricotte”, avvicinandosi solo marginalmente al tema del consumo rituale/celebrativo di cibi a base di ricotta e alle motivazioni di quest’usanza (verificabile) che giustifichino l’appellativo, che si crede riservato solo agli abitanti di questo paese, di “ventrijanchi”[1].
Invece di avanzare cautamente ipotesi correlate con questi fatti, il servizio ha interferito col racconto originario contribuendo a inserire elementi riconducibili alla matrice dei racconti centrati sulla figura del trickster, preferendoli persino a quelli suggeriti dai locali (a un certo punto si sente una voce fuori campo accennare al tema del “ventre degli asini”)[2].
La trasmissione televisiva (ora disponibile anche su YouTube) avrebbe potuto meritoriamente fondarsi sulle testimonianze raccolte per strada, corredandole poi con considerazioni conclusive a sfondo storico, mentre ha invece forzato l’introduzione di un’interpretazione parziale, con riferimento a presunti assedi di assalitori turchi (!) e con esiti rapportati a motivazioni logiche invece che alle loro origini mitiche (v. dopo).
Non scendo nel dettaglio di una vicenda che ciascuno racconta e interpreta a modo suo: il consumo rituale di particolari derivati del latte (spesso in periodi dell’anno di particolare abbondanza) e l’usanza di spalmarsi il ventre con prodotti alimentari è fatto che si può far risalire alla preistoria di molti popoli.
D’altra parte, i racconti popolari che tramandano questo e altri temi simili sono molto diffusi (non solo in Italia) e sono documentati in importanti opere. C’è ad es. il famoso “Ramo d’oro” di Frazer e ci sono le raccolte tematiche dei tipi narrativi di Aarne-Thompson (v. Uther 2004). Ma alle conoscenze di questo settore contribuiscono molti antropologi, filologi e linguisti contemporanei, talvolta tirati per la giacca dagli avventurieri del potere mediatico e spesso costretti a prendere le distanze da manipolazioni interessate.
Provo soltanto a riassumere alcuni elementi che aiutino a immaginare in maniera realistica, con uno sfondo plausibile, come si devono essere svolte alcune vicende del lungo passato di questo centro salentino riguardo al suo passato feudale e al suo progressivo inurbamento attorno a un castello, accantonando quel latente campanilismo che impedisce di pensare alle simili vicende che possono aver interessato altri centri vicini e non.
Prima di un assedio è infatti da supporre l’esistenza di un insediamento risultante dall’aggregazione in società di gruppi umani giunti in un territorio con determinate dinamiche di colonizzazione.
Non conoscendo l’epoca a cui far risalire l’episodio mitico sarebbe necessario interrogarsi preliminarmente su questo punto; ma assumendo che, comunque, a un dato momento, l’abitato avesse una fortezza e che i villici si rifugiassero in questa in caso di pericolo, occorre immaginare che cosa lasciavano fuori, alla mercé dell’invasore. Si può anche provare a immaginare che cosa facessero gli abitanti dei centri vicini per correre in aiuto, nel caso di alleanze di mutuo soccorso, o in caso contrario, se questi dessero manforte agli aggressori (anche solo nella speranza di essere risparmiati).
Con queste premesse non è affatto chiaro chi fossero i presunti assedianti che popolano il racconto degli intervistati, loro almeno rappresentanti autentici dell’identità locale (sebbene confusa dal veloce progresso e destabilizzata dall’introduzione incontrollata di elementi mediati da modelli extraregionali). Uno di loro rievoca lo stereotipo dei saraceni, su cui vale la pena spendere due parole. L’episodio è infatti anche proditoriamente interpretato dalla giornalista che, basandosi su un pre-testo (sicuramente stilato insieme agli autori della serie), non riesce a evitare che la sua verve divulgativa stabilisca un’indebita connessione tra “saraceni” e “turchi”.
Ovviamente, nella più totale ignoranza di chi fossero i vari assalitori che nel corso della storia si sono improvvisamente presentati a minacciare la quiete dei nostri paesi, questi due termini hanno avuto una grande fortuna, fermandosi nella memoria collettiva.
Ma dobbiamo renderci conto del diverso orizzonte storico (e immaginario) che evochiamo quando diciamo saraceni e turchi.
Ebbene sì – diciamolo agli esperti improvvisati – non sono uno stesso popolo/esercito/contingente, non sono altrettanto precisamente definibili e, comunque, non sono motivati dalle stesse ragioni politiche, da cui dipendono la qualità, la durata e le finalità di un assedio.
I primi, intesi in senso stretto, infierivano addirittura prima del X sec., con scopi radicali di conquista e sostituzione, ed erano stati così denominati soprattutto dopo le prime crociate (come si difendevano gli assediati dai Crociati in quel Medio oriente che neanche oggi riesce a liberarsi da scontri etnico-politico-religiosi?). È però soprattutto la diffusione dell’epica delle Chansons de geste che contribuisce a definire lo stereotipo dei “saraceni assedianti” applicato poi in generale a qualsiasi assalitore.
I secondi invece minacciano l’Italia meridionale ai tempi dei conflitti commerciali con Venezia (XIII-XVI sec.), ma soprattutto dopo la presa di Costantinopoli e la fine dell’Impero Romano d’Oriente (si tratta di conoscenze scolastiche elementari): le loro violente aggressioni sulla costa adriatica della penisola salentina (come dimenticare il sacco di Otranto del 1480), spesso come rappresaglia, hanno forse solo contribuito a rafforzare una leggenda già diffusa nel primo Medioevo (Langlois 2020).
Ora, se anche ammettessimo l’esistenza Parabita all’epoca delle invasioni saracene (X sec.), sicuramente non sarebbe l’insediamento attuale che comunque, notoriamente, non era ancora difeso dall’attuale castello.
Passi l’assurda idea che i sagaci contadini abbiamo potuto decidere di rifornire di derrate il castello (questo era ovviamente nell’ordinaria amministrazione di una fortezza, governata da una guarnigione e da un castellano). Passi anche l’elemento antistorico che sarebbe stato un contadino (il trickster) a prendere la decisione di lanciare ricotte sugli assedianti (fino a un paio di secoli fa i contadini erano a totale servizio del feudatario, che li considerava solo braccia da lavoro e non certo esperti di strategia militare). La cosa che più stupisce di questo breve audiovisivo è la facilità con cui si stabilisce l’ancoraggio storico a episodi stereotipati, che sono notoriamente esogeni e si presentano, come anticipato, nelle varianti del tema della Dame Carcas o delle “ressources augmentées” (Langlois 2020).
Riguardo a turchi e saraceni, gli eventi tragici a loro relativi che si ricordano generalmente per la nostra penisola si riferiscono a epoche separate da tre o quattro secoli, durante i quali e prima dei quali eventi diversi si sono verificati, imputabili a ben altri presumibili assedianti (nei secoli dopo Cristo le fonti ricordano ad es. i goti di Totila e, in epoca medievale e fino al ’300, i terribili Ungari). Gli scenari storici in cui collocare un eventuale assedio epico sono quindi innumerevoli.
Non è affatto chiaro chi abbia letteralmente raso al suolo insediamenti salentini scomparsi e oggi caduti nell’oblio dei più (dei turchi ricordiamo solo incursioni e scaramucce nell’entroterra nel XV sec.). Forse si è trattato di episodi di altre epoche, ripetuti in successione ravvicinata in periodi particolarmente complessi. Si può immaginare un insediamento umano di poche famiglie in un abitato rappresentato da poco più di un accampamento, con basamenti di pietra per capanne con tetti di paglia ad es., con recinzioni che non sono le mura di cinta di un centro fortificato.
E gli “assedianti” devono essere stati in più occasioni soldataglie allo sbando o gruppuscoli di rifugiati, magari di nuclei insediati in abitati vicini o sbarcati sulle coste adriatiche, in fuga da ben altri pericoli, che forse avevano visto distrutte le loro famiglie e devastati irrimediabilmente i loro campi da ben altri assalitori.
Immaginiamoli aggirarsi per le campagne salentine, tentare di avvicinarsi a un villaggio, dopo aver predato – per fame – alcune fattorie. Immaginiamoli mentre provano a chiedere più o meno insistentemente accoglienza e i poveri abitanti li respingono, li ricacciano, vedendo minacciate le loro economie, vedendo che le poche risorse non saranno sufficienti a sfamare altre persone.
Comunque sia, se davvero la leggenda del presunto assedio di Parabita si riferisce a un momento storico in cui esisteva già un castello nel quale i contadini si rifugiavano, si può anche immaginare la situazione in cui questo avveniva solo nottetempo o all’annuncio di approdi inattesi (e indesiderati): non si poteva sospendere l’attività lavorativa per lunghi periodi solo per una minaccia potenziale, che poteva presentarsi con una certa frequenza (come possiamo facilmente comprendere anche osservando gli sbarchi di questi ultimi anni).
È possibile che alcuni gruppi di coloni (ce l’immaginiamo dotati di armature e di catapulte? O solo vestiti di cenci e armati di pietre?) si siano presentati particolarmente insistenti. Dopo giorni di vagabondaggio da un insediamento all’altro, da cui venivano respinti, giungevano affamati e contrariati e potevano diventare aggressivi.
In alcuni casi – badiamo bene a questo dettaglio – gli assedianti presi “a ricottate” sono i nostri antenati, ai quali il feudatario locale, dopo attenta valutazione, concedeva di insediarsi in accampamenti vicini o, temporaneamente, negli anfratti rocciosi dei pochi rilievi, promettendo protezione e aiuto nell’edificazione di costruzioni più solide in cambio di lavoro nei campi o in altre attività utili… O forse ancora, dopo mille esitazioni, si aprivano le porte e si concedeva un po’ di refrigerio, anche solo cibi avanzati, magari ricotta (forse riserve di quella forte, uschiante). Prima che ripartissero per altri centri più accoglienti… O si fermassero poco più in là, in prossimità di ruderi di casali abbandonati a formarne di nuovi.
Ma anche in questo caso, chiarite le condizioni dell’ospitalità, dovevano subito mettersi a dissodare il terreno, sotto la protezione/oppressione di chi accampava diritti su quei territori, magari disputandoseli coi feudatari vicini.
Al contrario, non è difficile immaginare mille scenari in cui la popolazione rifugiatasi nella parte fortificata del villaggio abbia dovuto sfamarsi per giorni di ricotta (cioè vari latticini fermentati), ricordando poi con nostalgia negli anni seguenti, una volta risolta la situazione, quei tempi di privazione e sacrificio.
Questo non vale ovviamente solo nel caso di “stranieri” parlanti lingue esotiche e incomprensibili. E se infatti gli “assedianti” fossero coloni calabresi o siciliani che fuggivano con le loro famiglie dopo che i territori in cui vivevano erano passati sotto il giogo di governanti/sfruttatori particolarmente violenti? Il mitico assedio potrebbe essere dei fuggitivi siciliani dopo l’invasione araba, saracena (X sec.). Potrebbero essere loro che attendevano alle porte, in attesa di essere accolti in un insediamento preesistente e venivano sfamati, e poi uniformati alle istituzioni locali e istruiti a leggi, usi e costumi, costituivano i nuclei di nuovi villaggi in territori bonificabili…
Immaginiamo la condizione in cui il feudatario, che forse non risiedeva e non difendeva quei luoghi, mandava a dire che si desse ospitalità a quei profughi e i locali non erano contenti e non aprivano le porte del villaggio… E magari proprio in conseguenza di quel fatto sceglievano di appoggiare l’affermazione di un altro feudatario, opponendosi alle decisioni del precedente.
A chi segue con attenzione le vicende di questi tempi non sfuggono le analogie che fanno capire come devono essere andati nella maggior parte dei casi questi “assedi” e i ribaltoni politici dell’epoca che, trasformati e adattati alle condizioni attuali, comprendiamo benissimo.
E tra l’altro proprio per Parabita – se il giornalismo culturale e folklorico fondasse i propri “pezzi” sullo studio di testi preesistenti – abbiamo le carte dei registri angioini che consentono di ricostruire le difficile vicende della transizione tra Svevi e Angioini, tra casali latini e greci, con l’arrivo dei quali le cariche vengono riassegnate, in conseguenza di congiure e in concomitanza di rivolte contadine e di dispute con gli insediamenti vicini.
Niente orde turche, dunque, che sarebbero arrivate ad assediare proprio Parabita scatenando una “guerra delle ricotte” .
Con cautela, distinguiamo i fatti storici dalle leggende. Prima di elargire ingenuità, chiediamoci: cosa avrebbero mangiato le femmine galattopoietiche per garantire la produzione di tanta ricotta da dissuadere un esercito? Perché gli assalitori avrebbero attaccato proprio Parabita e non i villaggi della zona? O, se sì, come si è risolto l’assedio in quel caso? Li hanno presi a ricottate anche lì? Oppure, se no, perché non è arrivata anche lì la leggenda della “ricottata”?
Un topos come questo, testimoniato dubitativamente a Parabita (nessuna menzione risulta dalla consultazione delle opere di storia patria, né delle riviste locali, né dei numeri unici dedicati alle festività de La Madonna della Coltura, alle quali si associa il consumo di pasta con la ricotta): vi è giunto, come estensione di altre mitologie, con agganci logici pretestuosi alla tradizione locale.
Contando nell’ampiezza di circolazione che gli è garantita da un prodotto audiovisivo fruibile anche su internet, questa narrazione insidierà la solidità delle conoscenze degli esperti, locali e non (a cui l’influencer si sostituisce, denigrando il canale culturale tradizionale e gettando discredito sull’accademico). D’altra parte, la riproducibilità dell’informazione da parte di fonti diverse, “arricchisce” il dato e sminuisce l’appeal delle fonti primarie, che restano numericamente marginali: una volta diffuso con questi mezzi, difficilmente l’intrigante topos della “ricottata sui turchi” potrà essere sradicato, reinserendo la ricerca delle origini dell’espressione ventrijanchi in una matrice geo-storica più solida. Ma questo fa ormai parte del gioco: alla prima occasione in cui non fa più divertire, l’informazione verificabile viene subito scartata e le conoscenze dell’esperto che fino a un momento prima era apprezzato e riverito, sono immediatamente derubricate a mero parere personale.
Tutto ciò sollecita inoltre utili riflessioni anche sulle reazioni di profili intellettuali diversi di fronte alla manipolazione “politica” delle informazioni.
Da un lato troviamo il cultore locale (ma non il giornalista che pure raccoglie il dato e dovrebbe essere in grado di confrontarlo e valutarlo) che scopre come una leggenda radicata in alcuni posti e che qualcuno propina come storia locale, altro non è che un topos, una sorta di leggenda metropolitana ante litteram (come suggerisce brillantemente il primo parabitano intervistato nel servizio).
Dall’altro lo spirito sensibile che, anche antiteticamente, trova la spiegazione di fatti dell’attualità e reinterpreta la realtà alla luce di una migliore conoscenza della storia, così come ci è stato mostrato dagli studiosi francesi del Novecento (da Bloch a Le Goff, ispiratori di filologi e storici italiani per fortuna oggi molto mediatizzati, ma v. sopra la fine che fa l’esperto quando non piace quello che dice)[3].
E in mezzo? Tanta gente curiosa, ma abbindolabile, manipolabile da molto giornalismo ciarlatano che rielabora come racconto mitico persino le notizie d’attualità (Loporcaro 2005: 27-28).
Bella, quindi, la leggenda narrata e tramandata dal popolo; meno bella quando propinata da vecchi e nuovi influencer e spacciata per verità storica.
Nel caso in questione riferendosi a chissà quale periodo e immaginando chissà che tipo di assedio, la giornalista/conduttrice ha addirittura concluso precisando che l’assedio era stato tolto “dopo dieci giorni”. E questo “dieci” fa molto riflettere anche il relazione alla violazione delle cosiddette “massime” di Grice (1978) e al peso delle implicature conversazionali. Ma come fanno i giornalisti a “sapere” tutte queste cose? Dove si può trovare documentato questo “dieci” se già non siamo in grado di reperire e riferire razionalmente né l’epoca né le circostanze di questo presunto assedio?
E, applicando a una vicenda del tutto secondaria le importanti considerazioni di Hannah Arendt (*2008), pongo una domanda finale per tutti: perché prima di divulgare un’informazione urbi et orbi non valutiamo eticamente l’impatto che può avere?
Partendo da questo banale episodio, ai lettori e agli altri autori degli articoli che compaiono in questa sede auguriamo di ricordarsi sempre di esercitare il necessario spirito critico e aiutare gli sprovveduti a formarsene uno, fosse anche in disaccordo col nostro.
Bibliografia
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Note
[1] A questo riguardo si noti che, già nello stesso Salento, il soprannome è usato anche per gli abitanti di Gagliano del Capo (Rohlfs 1984; cfr. ora anche Barletta 2023). V. n. seg. Non mi attardo sulle forme pseudo-dialettali ammannite da alcuni partecipanti all’intervista, ormai mistilingui (in molti casi non più dialettofoni esclusivi, anche se ancora non italofoni nativi).
[2] Oltre a quella relativa al consumo rituale di ricotta, è questa l’unica spiegazione accreditata localmente per tradizione. In Seclì (1992), s.v. Ventrijanchi, si legge: “Soprannome dato dai vicini […], facendo riferimento all’animale dal ventre bianco per antonomasia: l’asino. I parabitani si scherniscono giustificando l’epiteto con il tradizionale piatto consumato il giorno della festa che celebra la Madonna della Coltura: la pasta con la ricotta. Il soprannome era anche usato da Don Checco Leopizzi che firmava, con lo pseudonimo ventrijancu, alcuni articoli su L’Alba, giornale locale del secolo scorso”.
[3] Partendo da un’opera salentina in versi del XVIII sec. pubblicata da Donato Valli, mi è accaduto di dedicare a questo tema alcune considerazioni su tematiche no-vax ben prima che si diffondesse il coronavirus (cfr. Romano 2019).
Utile è dire poco di questo articolo-saggio di grande spessore documentario e teoretico, oltre che di rigoroso interesse metodologico e storico. Richiamare (e richiamarci) ad una doverosa responsabilità etica e di accertamento veritativo mi pare una necessità in tempi di blando e inesistente rigore analitico.
Grazie del commento e degli apprezzamenti. È importante aver trovato anche questo canale di connessione. Rispetto ai temi più urgenti dell’attualità, il mio contributo è marginale, ma dalle piccole cose… Speriamo che il futuro ci porti più condivisione e che i media non si allontanino troppo dalla realtà.
Bellissimo testo, misuratamente ironico, molto efficace; mi piace molto la proposta dell’esercizio di una “immaginazione realistica”, se così di può dire, ma purtroppo in molti casi ti ritrovi immerso nella diffusione di notizie false del tutto strampalate ma avallate e certificate dai mezzi di informazione; ma siamo assediati, stai a vedere che anche il prof. Romano e il manipolo di chi la pensa come lui saranno costretti a lanciare le ricotte.
Grazie del commento e del rilievo alla tecnica di riflessione. Oltre a far riflettere meglio chi vede la Storia come materia scolastica e può contribuire a non stereotipare e demonizzare nemici immaginari (in un momento in cui dovremmo ritrovare fratellanza e condivisione)
Caru ‘Ntoni, a parte ti ho scritto qualche amenita’, incompleta, perche’ non avevo letto integralmente il tuo articolo; intorno alla pasta con la ricotta di Parabita hai imbastito, ormai da storico-linguista-semiologo, una vicenda critica degna di quell’altra “alimentare” di Eco “Viaggiare con un salmone”; le indicazioni al pronto-all’uso etico sono diverse e poi tu non sei avvezzo a dare diktat gratuiti quanto a tentare di capire; facciamo cosi’: non c’e’ solo l’intelligenza o la realta’ aumentata ne’, con i tempi che corrono, pane distribuito gratuitamente dai governi assediati, i Des Baux Del Balzo nostrani, ma continuano a sopravvivere gli assedianti ai piedi delle castella, mangiatori di pasta scotta d’orzo alla ricotta; replico: ho capito qualcosa?
Caru Pippi, grazie per questo commento (e del suggestivo richiamo a Eco). In effetti non volevo con questo contributo trattare da ricottari solo gli ingenui autori di questo servizio. Viviamo un momento di forte sbandamento culturale e anche certa intellighentsja mostra un fianco scoperto (evidente persino agli occhi di un ragazzo appena poco più consapevole). Quanto alla questione assedianti-assediati, considerando anche il dato emotivo, neanche la peggiore divulgazione può ancora ridurre la questione in buoni vs. cattivi: con i pochi esempi che ho dato di “immaginazione realistica” (ma il riferimento al periodo angioino-svevo e, prima ancora, greco-normanno), mi prefiggevo di incoraggiare a pensarsi (e a pensare i nostri mitici antenati) tanto da una parte quanto dall’altra.