Gioventù salentina 4. Il racconto di Luigi Latino (23 agosto 2006)

Ti ricordi qualche studente, tuo compagno di scuola, particolarmente politicizzato?

Non c’era un leader. Ricordo un certo Nestola di Copertino, non mi ricordo il nome.

Ricordi qualche figura di insegnante che può aver avuto qualche influenza politica su voi studenti?

Gli insegnanti erano peggio degli studenti, se ne fregavano sia della politica sia di insegnare, c’era un lassismo totale. Però ci consentivano di parlare, di discutere dei fatti del giorno, quando c’erano particolari avvenimenti.

Ricordi qualche altro tema di discussione?

Per esempio l’ora di cinquanta minuti, ma questi erano problemi minori. In generale noi contestavamo tutto il sistema autoritario, l’organizzazione della scuola, la famiglia, Chiesa, lo Stato, tutto l’ordine precostituito era oggetto di contestazione e si cercava di immaginare forme alternative da contrapporre a quell’ordine. Tieni conto che venivamo dalle scuole elementari in cui ancora il maestro usava la bacchetta e anche il clima che si respirava nelle famiglie era molto opprimente. La distanza temporale e di mentalità dal fascismo era ancora breve, c’era molto autoritarismo, e noi ci ribellavamo a quest’ordine. In quegli anni quasi tutte le scuole venivano occupate dagli studenti, anche il Magistrale, dove c’era Aldo Aloisi, veniva occupato. Anche il classico per pochi giorni fu occupato. Partiva una scuola e poi seguivano tutte le altre scuole. Occupavamo per molti giorni, dieci, quindici e poi interveniva la polizia a farci sgomberare. Rimanevano a dormire quindici, venti, trenta persone, poi di giorno gli studenti che non si erano fermati di notte venivano a portarci i vestiti, cibo, ecc., a darci il cambio: si fumava, si ballava, si discuteva. Allora a livello politico non c’erano luoghi fisici di riunione, se non nella sede dei partiti, ma anche i partiti erano oggetto di contestazione, che avveniva dappertutto, in ogni luogo, quindi ci si ritrovava ovunque, per strada, al bar, in piazza, ecc.. Solo dopo alcuni gruppi  si sono procurati una sede, in minima parte. A volte facevamo anche dei cortei studenteschi.

Come avveniva un’occupazione?

Spesso venivano studenti medi e universitari da Lecce, che ci davano un appoggio morale e strategico, quando dovevamo avere le chiavi della scuola, poi una volta che l’occupazione era iniziata, dopo che uscivano preside e insegnati, se ne andavano via e rimanevamo noi.

Ti ricordi qualche nome di studente che veniva da Lecce?

No, mi ricordo solo molti eskimo con esterno verde e interno rosso, le barbe e i capelloni.

Luigi, parliamo della tua famiglia, dei tuoi genitori. Quale attività svolgevano e come erano schierati politicamente?

Mio padre era contadino bracciante, di quelli che si mettevano vicino al dazio per avere la giornata. Era comunista. Mia madre era casalinga, era comunista e cattolica, una catto-comunista in perenne conflitto interiore. Andava in chiesa, ma al momento del voto votava comunista. Non mi hanno mai forzato ad andare in chiesa e io ci sono andato con mia madre solo fino a sette anni.

Quali persone o gruppi frequentavi al di fuori della scuola e della famiglia?

In quel periodo frequentavo la FGCI,  a 14-15 anni, dove c’era anche Antonio Baldari e le sorelle, Lucio Mangia, Lucio Romano (che però non era nella FGCI, ma nel PCI), Salvatore Giaccari, detto Zichi. Avevamo una stanza nella sede, la prima entrando a sinistra.

E poi frequentavi altri luoghi?

Sì, l’ENDAS, giocavamo a ping pong.

Che cosa facevate nella FGCI?

Si facevano delle discussioni, ma erano sempre abbastanza pilotate, non libere, c’era sempre il segretario dei giovani che controllava.

Fin quanto sei stato iscritto alla FGCI?

Per circa tre anni, dal 1968 al 1970.

Per quale motivo sei uscito dalla FCGI?

Forse è stato il richiamo dei movimenti, che è diventato molto più forte di quello dei partiti.

A quale gruppo ti sei aggregato?

Ci vedevamo la sera per chiacchierare, giocare, discutere di politica magari con compagni venuti da fuori (di Sogliano, di Cutrofiano, ecc), venti, trenta persone, di cui non conoscevamo a volte neanche il nome.

Ti ricordi di qualcuno in particolare?

Roberto Vantaggiato di Cutrofiano, Pati (ma non ricordo il nome).

Dove vi trovavate?

In villa.

In un punto qualsiasi della villa o in un posto preciso?

Ci si trovava verso la chiesa della Madonna Immacolata e un po’ più in su, verso il monumento ai caduti. Si chiacchierava di tutto, non esisteva il privato, tutto era pubblico, politico, ogni argomento era politico e nulla era al di fuori della politica.

C’erano delle ragazze fra di voi?

Un venti per cento erano ragazze, alcune politicizzate, altre che si avvicinavano per simpatia personale e poi si politicizzavano.

Ricordi qualcuna di loro?

Antonella Marra, Antonella Cazzato, Marilena Baldari (due sorelle), Matilde Bidetti di Seclì, due ragazze che abitavano alla via di Lecce, di cui non ricordo il nome, Nora Peluso, poi a loro si avvicinò anche Maria Cafaro (verso il ’78-’79, l’inizio della disgregazione). Stavano sempre con noi, ma qualche volta, quando avevano bisogno di fare politica al femminile, si riunivano da sole, in una casa privata di una di loro.

Avete mai organizzato qualcosa, per es. manifestazioni, cortei?

Spesso partecipavamo alle manifestazioni di Lecce.

C’erano solo studenti in questo gruppo?

No, c’erano studenti, ma anche molti che lavoravano, che stava male, perché venivano sfruttati dai padroni nelle fabbriche di Galatina, e anche dei disoccupati. Era un gruppo aperto, dove se qualcuno, quattro cinque persone, aveva un’esigenza, organizzava qualcosa e la portava avanti anche senza gli altri. Non era un gruppo organizzato e ideologicamente etichettabile. C’era elementi di Lotta continua, di Potere Operaio, di Avanguardia operaia, ecc.

Chi era schierato con Lotta continua?

Era il gruppo più forte, anche a livello nazionale. Ricordo Roberto Cazzato, Enzo Marra e poi non ricordo.

E di Potere operaio?

C’era qualcuno non di Galatina, non ricordo.

E di Avanguardia operaia.

Io. Potrei dirti qualcun altro, ma è meglio di no, perché quello che dico mi potrebbe essere contestato dall’interessato, che magari oggi la pensa diversamente.

Oltre alla villa, c’erano altri luoghi di aggregazione?

Il primo luogo chiuso di ritrovo fu la Lega dei disoccupati, nel 1975. Prima usufruivamo della sede del PSIUP di Apollonio Tundo, vicino alla Chiesa delle Anime. Se era un’iniziativa a cui anche il PSIUP partecipava, ci accoglievano. Sulla sede del PCI non andavamo, avevamo tagliato i ponti col PCI. Qualcuno di noi aveva anche un ciclostile, non ricordo chi.

Poi facevamo molti tatzebao che affiggevamo sui muri davanti alle scuole o per le strade della città.

Voi come sentivate l’antifascismo?

Per noi non era tanto identificato con i valori della Resistenza, quanto con la lotta contro l’autoritarismo, l’oppressione, il potere dei professori, dei padroni, dei potenti. Questo era per noi l’antifascismo.

Dove hai fatto il militare?

A Palermo per tre mesi e poi a Padova e a Trento. In particolare a Padova trovai in caserma un ambiente molto politicizzato. Pensa che nella mia camerata, dove c’erano quaranta militari, uno solo era di Avanguardia nazionale, e il resto erano tutti di estrema sinistra, il più moderato era di Lotta continua. Era una camerata di pensatori, molti laureati, gente istruita, dove non c’era nonnismo, ma un grande rispetto per i nuovi arrivati, ed anche questo era un dato politico.  Nel marzo-aprile 1975 sono rientrato a Galatina.

In quale gruppo ti inseristi?

Per la verità in nessuno, perché ero troppo impegnato nel lavoro, per un anno e mezzo. Lavoravo presso una ditta che aveva dei furgoni, con cui trasportavo la carne nei mercati, era una ditta di Brescia, avevo poco tempo per frequentare gli amici. Poi il padrone si è trasferito a Brindisi e ha licenziato tutti.

A questo punto sei rimasto disoccupato?

Sì. Nasce qui la mia adesione alla Lega dei disoccupati. La Lega era già nata da tempo a Napoli, ed era molto attiva. A Galatina c’era il problema di molti compagni disoccupati, che non avevano una sede. La sede fu chiesta ufficialmente al Comune e l’Amministrazione comunale ce la diede nei locali di Santa Chiara. Così il gruppo che avevo lasciato qualche anno prima, al 90%, si trasferì presso la Lega dei disoccupati insieme ad altri disoccupati, magari persone non politicizzate. Non c’erano iscrizioni né segretari né comitati direttivi. Ci si trovava in qualunque ora del giorno, era un punto di ritrovo. Lì c’era una bella piazzetta, sicuramente i ragazzini di allora si ricordano di noi, che giocavamo a pallone con loro.

In quanti eravate?

Una ventina di attivisti, poi c’era gente che andava e veniva, alcuni si avvicinavano, ma non volevano responsabilità, evitavano di esporsi.

Che cosa facevate?

Politica: riunioni, assemblee, scrivevamo tatzebao. La sede veniva usata da tutti i compagni, che in quei locali si ritrovavano per organizzare iniziative politiche. La cosa più importante che facemmo fu l’occupazione dell’Aula consiliare del Comune, intorno al 1977. L’Amministrazione aveva fatto delle assunzioni che noi ritenevamo irregolari, dettate da clientelismo e da favoritismo politico: nessuna lista, nessun concorso, niente. Organizzammo una manifestazione in piazza. Il corteo partì dalla Piazza San Francesco e andò a finire davanti al Comune, dove si sciolse. Eravamo un centinaio di persone, ma molto motivate. Qualche sera dopo, dopo un acceso consiglio comunale, nel quale avevamo protestato contro quelle assunzioni, non abbiamo permesso a nessuno di parlare, i consiglieri sono usciti dall’aula, e noi abbiamo occupato. Siamo rimasti, se non ricordo male, almeno 4-5 giorni. C’era Marcello e Giuseppe Romano, Matilde Bidetti, Tonino Baldari, le sorelle Baldari, Enzo Marra, Apollonio Tundo, Antonella Cazzato, Roberto Cazzato, Francesco Benegiamo e altri.  In quel momento diverse forze politiche hanno cercato di cavalcare quella protesta: il PCI di Lucio Romano, il PSIUP di Apollonio Tundo, i socialisti di Paolo Forte, queste persone cercarono di gestire l’occupazione, sperando ognuno di portare acqua al proprio mulino. In quei giorni le forze dell’ordine, sebbene presidiassero l’ingresso del Comune, ci lasciarono in pace, e pure le altre forze politiche non si fecero vedere, non ci fecero pressioni per farci andare via.

La città come ha reagito?

La città sapeva tutto, ma non ci guardava con simpatia né ci appoggiava. Avevamo solo l’appoggio dei compagni. Apollonio ci portava damigiane di vino e pentoloni di pezzetti.

E le famiglie?

Anche le nostre famiglie non ci diedero nessun appoggio. Lo strappo non era solo con le Istituzioni, ma anche con le famiglie, che non approvavano. Non avevamo né l’appoggio della città e neppure delle famiglie, che non riuscivano a capire la posizione dei figli. Per es. Francesco Benegiamo o Giuseppe Romano stavano bene in famiglia, e i genitori non potevano appoggiare una simile protesta.

Eravate completamente isolati, dunque?

Certo, era una lotta estrema, contro tutti, una lotta disperata.

Come andò a finire questa vicenda?

Una sera portarono la notizia che l’Amministrazione comunale aveva deciso di sospendere le assunzioni e quindi fu messa in discussione la possibilità di recedere dall’occupazione, perché c’era stata un’apertura da parte dell’Amministrazione. Fu una serata convulsa. C’erano molti uomini di partito che volevano cedere e c’era anche una parte della Lega che si sentiva gratificata dal risultato raggiunto e voleva cedere. Alla fine furono messe ai voti due mozioni: la prima che chiedere la fine dell’occupazione, la seconda che invece pretendeva delle garanzie precise per il futuro. Vinse la prima mozione. Del resto si era sparsa la voce che se quella notte non ce ne fossimo andati, sarebbe intervenuta la polizia. Questa conclusione della vicenda significò uno strappo all’interno della Lega che non si sarebbe mai più ricucito. Per me allora finì la Lega dei disoccupati. Allora andammo via io, Angelo Contaldo, Pippi Romano, Antonio Oliani, detto Peta, di Soleto (che si fece l’occupazione ventiquattro ore su ventiquattro) e altri, e non passammo più dalla Lega dei disoccupati. Non so più se la Lega ha continuato ad esistere oppure no.

Ci fu uno strappo anche nei confronti dei partiti.

A questo eravamo già preparati, ci aspettavamo il tentativo di dividere. Ma lo strappo avvenne nei confronti dei compagni della Lega stessa, non nei confronti dei partiti, che era già avvenuto da tempo. Il problema era che davamo fastidio a tutti e certamente i partiti furono contenti di questa conclusione.

Che cosa avvenne dopo?

Abbiamo continuato ad incontrarci e a fare delle cose, forse più degli altri. Allora facemmo un opuscolo ciclostilato, ben rilegato con copertina color bordeaux, che invitava la gente all’astensionismo dal voto alle elezioni politiche. Poi, negli ultimi due anni di agonia del movimento, facemmo un foglio di giornale, “Azione libertaria”, lo facemmo noi quattro, io, Giuseppe Latino, Angelo Contaldo e Antonio Oliani, con occasionali collaboratori esterni. Uscì il primo come numero unico, gli altri numeri, non ricordo quanti, come supplemento a “Umanità nuova”, periodico anarchico nazionale. In quel periodo abbiamo anche avuto dei contatti con dei gruppi anarchici di Bari. C’era un compagno, Totò, di Cannole, che studiava a Bari, e teneva il collegamento con la sede di Bari del gruppo anarchico. Siamo andati tre o quattro volte a Bari, se non ricordo male si organizzava qualcosa sulla questione basca. La distanza tra Galatina e Bari però non ci permise di continuare questi incontri. Cessò presto anche la pubblicazione del giornale per mancanza di fondi. Non c’era pubblicità, il giornale si diffondeva gratis, e diventava una spesa insostenibile per dei disoccupati.

E siamo arrivati all’incirca al 1980-81, l’inizio del riflusso. Nel frattempo a Galatina era esploso il problema della droga. Come avete fronteggiato questo problema?

Personalmente, l’ho vissuto molto esternamente, poiché non ero coinvolto direttamente, non facevo uso di droghe, non mi prestavo al gioco. Si sono fatte delle assemblee molto animate per affrontare questa situazione. C’erano quattro cinque compagni che avevano una posizione molto dura sulla questione della droga, la rifiutavano in modo totale, e quando accadde che cominciò a circolare la droga fra di noi, anche in assemblea, costoro consideravano una mancanza di rispetto verso gli altri fumare anche lo spinello durante una discussione collettiva. Questa posizione divenne presto minoritaria, tant’è vero che nelle assemblee divenne normale l’uso degli spinelli. Questo vale per i primi anni sessanta. Poi, man mano che il gruppo si disgregava, l’uso delle droghe, anche pesanti, divenne più diffuso, e questo soprattutto perché venne a mancare quel punto di riferimento, quella protezione che il gruppo aveva rappresentato.

Di quel gruppo, di cui parlavamo prima, per intenderci, di quel gruppo che all’inizio degli anni settanta si collocava tra la Chiesa della Madonna Immacolata e il monumento ai caduti, quante persone sono cadute nel tunnel della droga?

Molti. Molti ne hanno fatto uso, alcuni ne sono morti negli anni seguenti, verso la fine degli anni settanta, i primi anni ottanta. La disgregazione avveniva giorno per giorno, ognuno faceva le sue scelte individuale, abbandonando la vita di gruppo: chi si drogava, chi si sposava, chi partiva per lavorare altrove.

Quando il gruppo si è dissolto definitivamente?

Secondo me, nei primi anni ottanta, l’80-81.

La vita di questo gruppo è durata sette-otto anni, dunque?

Sì, dal 73-74 all’80-81, all’incirca.

Dopo che cosa hai fatto?

Mi sono ritirato a vita privata. Ho lavorato come ambulante di abbigliamento. Questo la mattina, il pomeriggio con la mia fidanzata andavamo a pesca, al mare, stavamo sempre insieme, da soli, non andavamo in cerca di nessuno e nessuno ci cercava. Poi mi sono dedicato, sin dai primi anni ottanta, alla pittura. La pittura è stata la continuazione della mia voglia di comunicare. Non potendo più esprimermi all’interno di un gruppo, ho trovato un modo di espressione, per continuare a parlare, senza essere ascoltato in ogni caso… (risate). Fino all’88 (è l’anno in cui mi sono sposato) è andata avanti così. Ho cominciato ad osservare. Anche nei miei quadri ricorre spesso una figura che se ne sta in disparte ed osserva quello che avviene intorno. Io mi sono tirato fuori, ma continuando ad osservare quello che accadeva nella realtà, come se però riguardasse gli altri. Il mio rifiuto del sistema ho continuato ad esprimerlo in questo modo.

Forse questa è una chiave di lettura del tuo astrattismo. Il termine, infatti, deriva da ab-trahere, trarsi fuori da. E’ giusto?

Sì, la mia è stata una fuga dalla realtà. Io ho praticato l’astrattismo figurativo, sebbene permanesse in forma minima la figura umana. Poi la mia pittura è evoluta in senso ancora più astratto, la figura umana è venuta a mancare, sono approdato all’informale, la ricerca di mondi che non esistono.

Vuoi aggiungere qualcosa?

Vorrei solo dire che quel periodo, comunque siano andate le cose  per ciascuno di noi, è stato un periodo intenso, che ha segnato le persone, in bene e in male, anche quelli che anche adesso stanno male o che sono stati male, anche quelli che sono morti. Se ci pensiamo, era stata creata un altro tipo di società nella società reale, quei gruppi vivevano in modo autonomo e distaccato, avevano creato delle comuni, delle comunità, dei gruppi a sé, che cercavano di vivere in modo alternativo rispetto a quello che era lo stato di cose esistente.

Il problema è che la società reale ha distrutto quel tipo di vita alternativo.

Questa società è stata costruita per distruggere qualsiasi tipo di comunità alternativa, qualsiasi forma di associazione umana, tant’è vero che ha distrutto tutte le forme di vita diverse, già esistenti da secoli, in ogni parte del mondo, anche nei luoghi più lontani. Questa società non dà più la possibilità di pensare ad un mondo diverso, ha tolto la speranza. Allora noi avevamo ancora questa possibilità.

In quegli anni, come ti definivi, anarchico, comunista, libertario o che altro?

Da quando ho strappato la tessera della FGCI, nei primi anni 70, ho rifiutato qualsiasi tipo di tessera, anche quella della povertà. La sola idea di essere etichettato mi dava fastidio. Mi definivo “un libero pensatore di sinistra”, pronto a collaborare con qualsiasi altro gruppo per delle cose concrete. A livello utopico, mi sentivo anarchico.

Ed oggi, vale la stessa cosa.

Sì, anche se ho preso la tessera dei comunisti italiani, ma non cambia nulla. Oggi mi sento immune a qualunque appartenenza, so di essere talmente forte che una tessera non può influire sulla mia vita e non può interferire col mio pensiero.

[Gioventù salentina, Edit Santoro, Galatina 2007, pp. 65-80]

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