Non nel mio nome

Quello che davvero non capisco è la predisposizione dell’Occidente, sicuramente dell’Italia, alla sindrome di Chamberlain e Daladier, con cui ci si auto discredita: cioè, per non mostrarsi deboli e arrendevoli di fronte alla prepotenza dell’avversario o del nemico, ci si irrigidisce in un atteggiamento di aprioristica condanna, di totale chiusura. È quello che è avvenuto con la Russia, del resto, fin dall’inizio della guerra di Ucraina, e quello che avviene ancora adesso nei confronti dei nemici di Israele. Da parte degli ebrei c’è questa autoconsapevolezza delle proprie sofferenze e dei torti patiti dalla storia che li porta a diventare quasi tracotanti come quei disabili che inveiscono contro i normodotati che non rispettano i loro spazi riservati: “Noi abbiamo subito l’Olocausto, non vi permettete!”. Cioè, quello che fanno loro è giusto a prescindere, in quanto ebrei, nessun vaglio critico vale a discernere torti e ragioni.

La polarizzazione del conflitto è sempre un male e porta anche in Italia da una parte gli ebrei, appoggiati dalle forze di governo di centro destra e più sfumatamente anche dalle opposizioni, dall’altra i movimenti di sinistra sinistra, filopalestinesi, che protestano dal basso con metodi che di democratico hanno ben poco, come detto prima. I vari gruppi extraparlamentari, i centri sociali e le più diverse sigle e siglette agit prop reggono il gioco di Hamas, degli Ezbollah libanesi e degli Houthi dello Yemen, alla fine. Certo, invocano la pace anche il mondo cattolico, quello meno conservatore, e il Papa, ma loro non fanno testo e comunque nessuno li ascolta. Gli esponenti di tutte le forze di governo europee dichiarano ogni giorno vicinanza e solidarietà allo Stato israeliano, giungendo ad affermare che gli israeliani stanno combattendo la guerra per noi. E no! Io non credo che Israele stia combattendo anche per noi, come ho sentito dire Daniele Capezzone in un talk show televisivo l’altra sera. Qui si confonde il sacrosanto diritto di Israele di difendersi con un assurdo e riprensibile dovere di attaccare preventivamente. Rispondere alle bombe islamiche è una cosa, massacrare i popoli è un’altra. Purtroppo la tanto decantata deterrenza nucleare non è servita a nulla e nel vicino Oriente si sta compiendo una folle corsa che andrebbe fermata, scoraggiata, impedita. Ad invocare la pace, ancora, in Italia, sono alcuni accademici e analisti di geopolitica, non tutti, solo quei pochi che si espongono, come il prof. Orsini, il quale ad ogni intervento viene subissato di critiche dagli esponenti del pensiero mainstream sovranista occidentale. Io non sono per le guerre e non cerco vendette. L’odio di Hamas e di Hezbollah per Israele, l’odio dell’Iran per Israele non mi appartiene, io non odio Israele, non odio la Palestina, non odio nessuno. Eppure, questa guerra che incendia il Medioriente è diventata la guerra di tutti, per quei paradossi della storia che chi studia conosce; non è nemmeno più la guerra mondiale a pezzi di cui diceva Papa Francesco, ma è ormai un conflitto globale, apocalittico. Andando avanti di questo passo, il pianeta sarà ridotto in cenere. È facile immaginare uno scenario post apocalittico. Dovremo andare a cercare i chicchi di grano nello Svalbard Global Seed Vault, il grande magazzino in Norvegia che contiene miliardi di chicchi che potrebbero garantire il cibo all’umanità in caso di catastrofe mondiale. Si tratta di una sorta di mega bunker a 426 metri di profondità nella montagna dell’isola di Spitsbergen, nell’arcipelago delle isole Svalbard, a 1300 chilometri dal Polo Nord, appunto in Norvegia. L’edificio, inaugurato nel 2008, è resistente a terremoti e a qualsiasi impatto catastrofico come una guerra nucleare. Ma facciamo in modo che non ci serva. Fermiamoci, anche se è già tardi. E se israeliani e palestinesi vogliono continuare a sparare, non lo facciano nel mio nome.

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