Gioventù salentina 3. Il racconto di Carlo Gervasi (31 ottobre 2006)

Credi di aver fatto una sintesi dei due modi di pensare o cos’altro?

Io ho vissuto l’area del Partito socialista: Paolo Spoti, Uccio Legno, sono cresciuto insieme a loro. Per educazione familiare e per indole, sono stato sempre con il gruppo minoritario, che è sempre il più debole. Non mi è mai piaciuto accodarmi alla maggioranza. Questo anche per uno spirito di contrapposizione, ma per capire meglio la posizione della minoranza rispetto alla maggioranza, mi sono formato nell’ambito di una minoranza. Difatti, per riequilibrare il rapporto sociale è fondamentale il lavoro delle minoranze – anche per questo motivo io sono un convinto anticapitalista, antiamericano, mentre sono un convinto europeista -.

Tu sei considerato il rappresentante della destra galatinese. Quando hai maturato queste tue convinzioni?

Quando frequentavo la scuola media inferiore non ero politicizzato. Allora ricordo vagamente solo un tentativo di fare sciopero, che avveniva a rimorchio del liceo. Il giardino della scuola media “Giovanni Pascoli” comunica con il liceo classico e lì avveniva il contatto, erano i più grandi che ci coinvolgevano. Discorsi di natura politica li ho cominciati a fare in quarto, quinto ginnasio, ma fuori della scuola, quindi all’incirca nel 1967-68. Allora frequentavo la Giovane Italia, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano (MSI), che radunava i più giovani.

Come arrivasti a iscriverti alla Giovane Italia?

Ricordo che in quel periodo c’era stata una manifestazione per Trento e Trieste e c’erano dappertutto le bandiere tricolore, che i liceali sventolavano con slogan nazionalistici. Erano manifestazioni limitate all’ambito scolastico, ma io fui colpito da tutto questo e cominciai ad avvicinarmi ai gruppi di destra. Allora a Galatina si era formato un gruppo di giovani abbastanza numeroso che frequentava la Giovane Italia, che poi fondò il Circolo “Gabriele D’Annunzio”. Fu questo circolo la fucina della destra galatinese e il centro di aggregazione di molti giovani: Mario Zuccalà, Aldo de Martino, Totò Ferraro, Flavio De Pascalis, Pinuccio Frau, erano quattro anni più grandi di me, erano i movimentisti del momento, che attiravano la mia attenzione. Ci si avvicinava a questo gruppo che dava l’idea di movimento anche perché non c’era molto altro da fare, quindi i più giovani avevano solo quel punto di riferimento.

Non vi era proprio nient’altro da fare?

Allora le cose che attraevano erano poche. Tra queste c’era lo sport, in particolare il calcio. Si andava a giocare dietro l’Istituto Tecnico – nello spazio dove oggi sorgono due palazzi – e bisognava andare alle due del pomeriggio per occupare il campo. Era un campetto di terra battuta molto morbida – tutti i migliori calciatori galatinesi si sono formati lì -. A volte io uscivo da scuola, non andavo a casa, ma mi recavo in questo campetto per occuparlo, poi alle tre venivano i più grandi che ci cacciavano, poi alle quattro venivano i più grandi ancora che cacciavano i precedenti. Finché all’imbrunire finiva tutto, andavamo a casa per fare i compiti, si studiava un po’ e poi si usciva di nuovo. Il punto di ritrovo, allora, era Piazza Fontana, che aveva i suoi settori: al centro, nello spazio antistante il monumento, verso l’edicola di Benito, passeggiavano i professori, su e giù, facevano un percorso pendolare. Dalla parte esterna, verso l’American Bar c’erano gli universitari, anche loro andavano su e giù, dalla parte dell’Oasi Bar c’erano giovani non studenti, operai, lavoratori. Questa era la Piazza Fontana alla metà degli anni Sessanta. Piazza San Pietro era un deserto, era frequentata solo a seconda del vento. Gli anziani si mettevano in Piazza San Pietro, vicino al Bar San Martino (dove oggi c’è Benetton) e  il Bar Ferdinando (attuale creperie), di fianco all’orologiaio Sabella, frequentato la mattina se spirava la tramontana, se il vento soffiava dall’altra parte si mettevano dietro l’angolo dove c’è il tabacchino e la cassetta della posta. Dove c’è la banca Mongiò c’era lu Furlina, che vendeva birra e, a fianco, il Santis Bar.

Tu e il tuo gruppo dove vi collocavate?

Noi – io, Piero Serra, Mario Stefanelli, Pinuccio Frau, Aldo De Martino, e altri – ci mettevamo in Piazza Fontana tra l’angolo di fronte all’American Bar e il sedile di fronte alla benzina IP, che oggi non c’è più (angolo di via Roma). Gli altri sedili erano punto di raduno di altri gruppi. Proprio in quel posto, su quel lato della villa, si decise di fondare il Circolo “Gabriele D’Annunzio” – io fui tra i fondatori, ho ancora la tessera del primo anno, il 1967 -. Ci mettemmo alla ricerca di una sede e questa ci fu offerta dall’MSI nei suoi locali.

E fu così che cominciasti a frequentare questo Circolo…

Sì, ma tieni conto che allora c’erano anche altri luoghi di aggregazione giovanile. Io stesso frequentavo anche l’Azione cattolica presso la Chiesa Madre, poi i boys scout presso Santa Caterina, ma non avevo problemi anche a recarmi presso la sezione del Partito socialista, dove avevano il televisore e vedevamo le partite – a casa mia avevo il televisore, ma preferivo vedere la partita con altre cinquanta persone -. Quando volevamo mangiare i pezzetti di carne si andava sul PCI…

Non mi dire che proprio tu andavi nella sezione del PCI?

Sì, ci andavo senza problemi. A una certa ora, se avevi fame, andavi lì tranquillamente. Allora eravamo in una fase precedente la divisione politica, e poi eravamo molto giovani, la politica era “frivola”, priva di quella ideologia che venne in un secondo momento. La frequentazione era molto trasversale, più dettata dalle amicizie che dalla politica intesa come ideologia di parte.

Come erano i rapporti tra i gruppi in villa?

Non c’erano molti rapporti tra i gruppi. Diciamo che ciascun gruppo viveva una sua vita autonoma. Già ti ho detto degli universitari e dei professori. Poi c’era un altro settore della villa, quello poco illuminato, verso l’Oasi, era frequentato dai più giovani che giocavano a campu e a zacca resta, giochi oggi scomparsi. Campu funzionava così: c’erano due squadre. Un ragazzo stava seduto su un sedile, una squadra difendeva il sedile e l’altra attaccava e doveva toccare con la mano il sedile per fare un punto. La squadra che inseguiva cercava di toccare l’avversario che, una volta toccato, doveva fermarsi. Poi poteva essere liberato dal tocco di un amico. Zacca resta non aveva il campo da difendere: c’erano cinque che inseguivano e cinque che correvano. Il gioco si sviluppava poi per tutti  i vicoli del paese vecchio.

Che cosa mi racconti della tua vita di liceale?

Ti potrei raccontare mille cose. Facevo il primo anno di liceo, avrò avuto sedici anni. Durante l’intervallo – eravamo un gruppo di sette, otto studenti – requisivamo tutti i cassini della scuola – e quindi dopo la ricreazione le classi erano prive di cassini -, poi ci chiudevamo in una stanza, dove avveniva una vera e propria battaglia con i cassini. C’erano due squadre – c’era la gara preventiva a chi usciva prima dalla propria aula per fare incetta di cassini: chi aveva più cassini aveva più colpi da sparare -. Spesso c’era un malcapitato, di solito era il figlio del preside Ottorino Specchia, Vincenzino Specchia, che veniva letteralmente bombardato dai cassini e diventava bianco. Una volta accadde che nel mezzo di una battaglia, qualcuno aprì la porta e un cassino pieno di gesso arrivò in faccia al prof. Giovanni Invitto, che allora era un supplente della scuola, avrà avuto ventiquattro anni, e stava con alcune ragazze, tra cui Marisa Forcina, che corteggiava e poi sposò. Il prof. Invitto divenne tutto bianco per il gesso e così conciato andò dal preside e disse: “Preside, guardi Gervasi che cosa mi ha fatto!”. Fui chiamato in presidenza e immediatamente sospeso per tre giorni senza obbligo di frequenza, e dopo qualche tempo ebbi sei in condotta e tutti quattro e tre nelle varie materie, e così fui rimandato a settembre in tutte le materie, ma all’esame non mi presentai. Questo accadde nel 1967 circa, l’anno in cui il liceo si stava trasferendo dalla vecchia alla nuova sede. In prima liceo, all’incirca dopo il mese di novembre, ci trasferimmo nella nuova sede. Tutto questo che ti ho raccontato accadde quando facevo la sezione A. Dopo che fui bocciato passai alla sezione C.

Perché cambiasti sezione, solo per cambiare gli insegnanti?

Sì, i miei familiari furono consigliati in questo senso. Allora il corso A era il corso degli eletti, ragazzi di buona famiglia, borghesia medio-alta, il corso B quello degli stranieri, cioè i ragazzi provenienti dai paesi vicini, e il corso C quello dei disperati, cioè i proletari, i ribelli, i ripetenti. Io avevo frequentato la sezione A, ma siccome ero diventato un ribelle, eccomi nella sezione C. Questo mi fu consigliato anche da un amico di famiglia, Nello Galluccio-Mezio, lo chiamavo Papà Nello, che ci indirizzò verso la sezione C perché c’erano professori più tolleranti e disponibili al dialogo  con gli studenti discoli. Nella sezione C mi trovai benissimo. Del resto, oggi posso dire, pensando agli studenti che sono usciti dai due corsi, che il corso C abbia dato dei risultati migliori rispetto al corso A. Il prof. Pasquale Barone mi accolse bene, perché aveva capito che l’episodio del cassino era stato un incidente su cui era stato montato il caso del professore colpito da uno studente.

Facevi attività politica all’interno della scuola?

Tieni conto che siamo già nel ’68 avviato, e quindi il fermento politico era ben presente nelle scuole. In particolare col professore di Storia e Filosofia, Giacomino Colazzo, che era dichiaratamente di sinistra, c’era una contrapposizione politica forte sui temi di storia, per cui quando si studiava la storia – materia che mi piaceva molto e su cui mi informavo per conto mio, su altri testi – lui la diceva in un modo ed io in un altro. Se lui parlava dei campi di concentramento nazisti, io gli tiravo fuori il discorso sulle Foibe, di cui solo oggi si parla tranquillamente, mentre allora queste notizie storiche circolavano su libretti clandestini come opuscoli di carbonari. Così pure sul brigantaggio le nostre posizioni erano diverse. Molta gente è stata considerata alla stregua di briganti perché non condivideva la scelta di Casa Savoia. Anche su Garibaldi, su questo falso mito del Risorgimento, ci scontravamo. Si arrivò ad una contrapposizione così forte che raggiungemmo l’accordo secondo cui, quando lui entrava in classe per fare lezione, io me ne uscivo. Per tre anni io non ho mai avuto una sola interrogazione, eppure sono stato sempre promosso. Anche qui interveniva Nello Galluccio, che gli diceva: “Tu lo lasci stare, e lui ti lascia stare”. Devo aggiungere che, se c’era una forte contrapposizione ideologica, c’era anche una grande simpatia tra di noi, lui mi rispettava e io pure, quasi ci volevamo bene. Lui capiva che io ero uno studente diverso dagli altri. E infatti oggi, se ci incontriamo, ci salutiamo cordialmente ed anzi con molto affetto e simpatia.

Ricordi qualche altro episodio di vita scolastica?

Se vuoi ti racconto un celebre scherzo: la muratura dell’ingresso del Liceo Classico.

Sentiamo.

La cosa fu pensata verso le sette di una sera di gennaio, in Piazza Fontana, presso la solita panchina. Come al solito non si sapeva che fare. Non ricordo più di chi fu l’idea, ma verso le undici di sera partirono tre, quattro macchine – io seguivo con una Lambretta – verso il Liceo, che si stava trasferendo nella nuova sede e si trovava si può dire in aperta campagna. Ci rendemmo presto conto che non era un’impresa facile, perché c’erano otto porte a vetro da murare, quattro da una parte dell’edificio e quattro dalla parte di dietro. Utilizzammo i conci di un muro ch’era stato eretto senza cemento lì nei pressi. Poi, con un sistema di contrafforti suggeritoci da un nostro amico che studiava ingegneria, disponemmo i conci in modo che il muro non potesse essere buttato giù tanto facilmente. Per fare tutto questo ci volle la manodopera di almeno quindici di noi, che lavorarono dalle undici di sera fino all’alba all’interno del liceo deserto. Quando cominciò ad albeggiare, non volendo lasciare l’opera a metà, davanti alle ultime due porte mettemmo dei termosifoni pesantissimi e un bancone – quello che ancor oggi usano i bidelli – per impedire l’ingresso. Il giorno dopo arrivai come se nulla fosse alle nove e mezzo – come al solito -, c’era la polizia, a cui il preside disse: “Chiedete a Gervasi, ca viddhu sape!”. Mi portarono nel commissariato, ma io non parlai. E il segreto durò per moltissimi anni, nessuno mai seppe nulla.

Fammi capire, questo scherzo nacque dal Circolo “Gabriele D’Annunzio”?

No, qui la politica non c’entra nulla. Questa è una goliardata, pensata dagli amici della villa, c’erano studenti del Tecnico di Galatina e dell’Industriale di Lecce, di estrazione politica diversa. Erano gli scherzi che si facevano allora. Per esempio, quasi ogni settimana, prendevamo la macchina di Nino Congedo – bastava che si allontanasse dalla macchina – e la mettevamo sul sagrato della Chiesa Immacolata. A me misero la Lambretta su un albero. Facevamo scherzi ai professori. Per esempio a casa del professore Colazzo andavamo a suonare in piena notte, mettendo gli stecchini nel campanello. Erano forme di goliardia.

Anche al professore Giuseppe Virgilio mi risulta che faceste uno scherzo…

Sì. La notte di Natale di uno di quegli anni telefonammo a don Pippi Tundo, che aveva appena finito di celebrare la messa della notte di Natale, e gli dicemmo di recarsi a casa del professore Virgilio per dargli l’estrema unzione. E don Pippi, con tutti i paramenti dell’estrema unzione andò una prima volta a casa, ma non gli fu aperto. Lui se ne torno a casa sua e noi gli telefonammo di nuovo, dicendogli – se non sbaglio era una donna che parlava al telefono – che il professore Virgilio era stato trasportato in ospedale e da lì ora era ritornato a casa; per cui don Pippi tornò a suonare a casa del professore Virgilio – erano le due di notte – ma neanche quella volta gli fu aperto. Di questi scherzi ne abbiamo fatti tanti. Bastava che ci incontrassimo tre o quattro di noi perché nascesse uno scherzo. Non avevamo altro da fare, dovevamo passare il tempo.

Per tornare al Circolo “Gabriele D’Annunzio”, puoi dirmi se fu fondato con un programma ben preciso?

Il Circolo era una costola dell’MSI sotto l’aspetto politico-ideologico, era un circolo autonomo per quanto riguarda l’aggregazione giovanile. Non c’era un programma ben preciso, ma la volontà di aggregare i giovani.

Perché si sceglie di intitolare il Circolo a Gabriele D’Annunzio, che era morto da almeno trent’anni?

Gabriele D’Annunzio è stato un grande poeta che si muoveva nell’area di destra. La scelta credo che si possa attribuire a Mario Zuccalà, ai suoi fratelli più grandi, Aldo De Martino, Pinuccio Frau, tutte persone più anziane di me. D’Annunzio era stato un nazionalista mai pienamente integrato nel fascismo, aveva fatto le sue battaglie, aveva un modo di porsi giovanile. Sicuramente nel Circolo si voleva rivendicare una sorta di autonomia rispetto all’MSI. Infatti, chi aveva la tessera del “Gabriele D’Annunzio”- ed erano 157 i primi iscritti – non necessariamente aveva la tessera dell’MSI. Io, per esempio, non ho mai avuto in quel periodo la tessera dell’MSI – per lo stesso motivo non ho mai preso la tessera della Giovane Italia, sebbene fossi della Giovane Italia -. L’ho presa molti anni dopo, quando finì la vicenda del “Gabriele D’Annunzio”. Solo i più grandi avevano la tessera anche dell’MSI, ma non noi giovani. Solo quando, negli anni successivi, cominciarono le campagne elettorali, l’MSI sentì l’esigenza di schierare dei giovani tesserati.

Quanto durò questo Circolo?

Molti anni. Almeno cinque, sei anni, dal 1966-67 al 1972-73. Il momento di massima vitalità fu nel 1968.

Che cosa facevate all’interno del Circolo?

Si facevano delle riunioni, si discuteva molto di politica sui temi di allora. Si andava al Cineforum, ma prima ci si preparava per fare l’intervento. Era un periodo nel quale si doveva essere presenti, la politica stava crescendo. Il Cineforum lo organizzava il professore D’Errico, al Cavallino Bianco, ma ricordo anche qualche serata al Cinema Tartaro. Per noi il Cineforum era una novità.

Ti ricordi qualche tematica specifica?

Ricordo il tema della Grecia…

Voi eravate schierati con i colonnelli, suppongo…

Sì.

E poi, ricordi altre tematiche?

La scuola. Quando ci fu il movimento studentesco, nel 1967-68, a Galatina ci fu l’unica occupazione d’Italia organizzata dalla destra, pilotata dal Circolo “Gabriele D’Annunzio”. Io stesso feci un comizio davanti alla scuola. Vorrei precisare però che tutto questo era il frutto del nostro entusiasmo giovanile, va inquadrato in un contesto goliardico, non c’era un radicamento ideologico e politico. Insomma, in buona parte si facevano queste cose perché non si voleva entrare a scuola. Sta di fatto che, mentre in tutta l’Italia era la sinistra ad occupare le scuole, a Galatina fu la destra ad occupare il Liceo classico.

A Galatina, dunque, non esisteva un gruppo giovanile di sinistra organizzato?

C’era, sì, c’era, e si contrapponeva al “Gabriele D’Annunzio”, era un gruppo che stava crescendo, ma il “Gabriele D’Annunzio” era molto più forte, più numeroso, più coinvolgente – all’inizio eravamo più di centocinquanta giovani -, era un gruppo che esplose in quegli anni e crebbe ancora negli anni seguenti. Era un gruppo così numeroso perché aggregava anche moltissimi giovani moderati. E difatti quando cominciarono sul piano nazionale i primi episodi di violenza, il gruppo si sfaldò, perché non riusciva, a causa della sua moderazione, ad andare allo scontro fisico. Molti si avvicinavano al “Gabriele D’Annunzio” perché… in piazza non trovavano con chi stare. Nessuno mai del “Gabriele D’Annunzio” ha mai avuto problemi con la giustizia. Una volta alcuni del “Gabriele D’Annunzio” parteciparono a Lecce ad una manifestazione che ebbe dei risvolti violenti. Ebbene, credo che in quell’occasione costoro si resero conto che quel tipo di manifestazioni non era accettabile.

Ricordi qualcosa di quella manifestazione?

Sì, era il 1968. A Lecce un corteo di giovani di sinistra voleva arrivare dall’Università fino a Piazza Santo Oronzo, e allora tutta la destra salentina si coalizzò per non consentire che il corteo sfilasse in Piazza. Ci stendemmo tutti in terrà in Piazza Santo Oronzo, ci furono momenti di tensione, sassaiole, gli studenti di sinistra furono respinti e chiusi nell’Università. I più facinorosi della destra chiusero quelli di sinistra nell’Università, chiusero proprio i cancelli, impedendo l’uscita. Fu un episodio che vide la partecipazione del “Gabriele D’Annunzio”, ma aprì gli occhi a molti, non ci fu poi più molta partecipazione, perché emerse l’anima moderata del Circolo. C’era molta ideologia e poca capacità di agire nelle piazze.

Facciamo un passo indietro. Raccontami per bene l’occupazione da parte della destra del Liceo Classico di Galatina.

L’occupazione durò pochissimo, dalla mattina al mezzogiorno.

Un po’ poco per un’occupazione…

Sì, fu più una goliardata che una vera e propria azione politica. Te la racconto. La sera prima ci organizzammo nel Circolo “Gabriele D’Annunzio”. Bisognava fare una manifestazione per coinvolgere la massa degli studenti – il Classico allora era già nella nuova sede -, ci procurammo un altoparlante, un trombone. Enrico Inguscio, figlio di Ciccillo, era pratico di fili, collegò questo altoparlante,  che stava su una Fiat 500 Topolino decappottata, alla batteria della macchina. Chi faceva i volantini, chi preparava l’intervento del giorno dopo. A tarda sera, ci mettemmo in macchina per provare questo trombone. Andammo in campagna, verso la masseria de lu Duca, e provammo l’altoparlante, che funzionava. Al ritorno trovammo nu cristianu con la bicicletta, un contadino che se ne tornava a casa, e cominciammo a gridargli col trombone: “Arrenditi, torna a casa, pedala…” e le voci dell’altoparlande si diffondevano nella campagna autunnale – credo fosse novembre -. Non ti dico le risate! Il giorno dopo non si doveva entrare a scuola! Noi arrivammo molto presto, verso le otto meno un quarto, per bloccare le donne – le donne infatti entravano quando arrivavano, non si fermavano fuori, mentre noi maschi entravamo alle otto e mezzo al suono della campanella -, alcune entrarono comunque, perché avevano l’ordine dei genitori. Davanti alla scuola, mentre i professori entravano dalla parte di dietro, si fecero i discorsi, lessi un discorso che avevo preparato insieme a Pinuccio Frau e ad Aldo De Martino, parlò credo anche Dino Valente, che allora era dell’Azione cattolica. Poi, dopo i discorsi, si passò alla votazione. Dalla Topolino qualcuno gridava con l’altoparlante: “Chi è favorevole e chi è contrario all’occupazione? Chi è favorevole, da destra si sposti a sinistra, chi è contrario, da sinistra si sposti a destra”, e così, nella confusione di questi andirivieni, si decise l’occupazione: “Tutti favorevoli”. Si andò dal vicepreside, il prof. Pasquale Barone, il quale ci disse: “Vi raccomando, vagnuni, non fate danno”, e così prendemmo possesso della scuola. Ma noi eravamo del tutto impreparati per una cosa del genere. Bisognava organizzarsi, stabilire i turni, chi doveva dormire la notte. E lì cadde l’asino. Già a mezzogiorno si fecero i turni per andare a mangiare e capitarono di turno quattro ragazzini di quarto ginnasio che venivano da Leverano. Siccome la loro corriera partiva alle tre di pomeriggio, potevano stare a scuola ad aspettare la corriera anziché aspettarla in piazza, prima di dare il cambio agli altri di Galatina, che intanto erano andati a mangiare a casa. Così furono consegnate a loro le chiavi dell’Istituto. Accadde allora che alle due del pomeriggio arrivò il preside, Ottorino Specchia, e disse ai ragazzi: “Aprite!”, e i ragazzi aprirono. Allora il preside aggiunse: “Mo’ potete andare a casa”, ci cacciò, e così finì l’occupazione del Liceo classico. Dopo quattro, cinque ore dall’inizio dell’occupazione fu ripristinato l’ordine.

Su quali temi pensavate di fare questa occupazione?

Erano i temi che si leggevano sui volantini, sui giornali che arrivavano in provincia da Roma, temi che venivano da fuori, sui quali si organizzavano le occupazioni in tutt’Italia. In realtà questo movimento era il frutto del nostro entusiasmo giovanile, era sano attivismo studentesco unito ad un pizzico di goliardia.

Tornando a parlare del Circolo “Gabriele D’Annunzio”, avrà pure avuto qualche antagonista politico, o no?

Sì, si contrapponeva alla sinistra, in particolare ai giovani che frequentavano la sede del PCI, Gino Anchora, Enzo Napolitano, Nico Bruno, poi c’erano quelli dell’Azione cattolica, Piero Grato, Ninì De Prezzo, Dino Valente, con tutti questi la sera “litigavamo” sulla villa, c’erano dei dibattiti molto accesi. Ci fu un solo episodio di violenza. Una sera fu aggredito Piero Serra. Dovevamo fare delle scritte sui muri – allora non si usava lo spray, ma pennello e catrame -. Ci stavamo organizzando all’interno del Circolo, Piero Serra stava uscendo dalla sede del Circolo e fu aggredito da alcuni del PCI, ci fu una scazzottata. E il bello è che Piero Serra non era neppure iscritto al Circolo, era un moderato, un frequentatore serale, ma intanto stava uscendo da lì, e quindi fu aggredito, senza altra motivazione.

Se si giunse a tanto, vuol dire che c’era una contrapposizione piuttosto forte…

Non credo. Erano tentativi provinciali di far vedere che si faceva qualcosa. La nostra reazione fu una serie di scritte contro il PCI e la FGCI. Imbrattammo tutte le scuole, tutti i muri della città per far vedere che eravamo presenti ed eravamo più forti. Ma non ci fu nessuna aggressione fisica da parte nostra.

E della sinistra exstraparlamentare non mi dici nulla?

Nel 1968 c’erano delle persone di Galatina che frequentavano gli ambienti extraparlamentari di sinistra a Lecce, non a Galatina. Allo stesso modo, qualcuno di Galatina frequentava gli ambienti extraparlamentari di destra a Lecce, ma non a Galatina. Io stesso ricordo di aver avuto in mano opuscoli di Avanguardia nazionale, di Ordine nuovo, era materiale cartaceo che circolava. Una volta partecipai ad una riunione presieduta da un tale di cui non conoscevo e non conosco il nome, era uno di Taranto o di Bari, accompagnato da una persona di Lecce, venne in casa di un amico. Si doveva creare un’organizzazione segreta, ma si fece solo una riunione con dieci persone e poi non se ne fece più nulla. Una volta ospitammo un signore sulla quarantina, un biondino che veniva da Reggio Calabria – durante i “moti di Reggio”, con il famoso slogan “Boia chi molla” -, perseguitato dalla polizia, e doveva andare in Grecia per cercarvi rifugio. Io e Corrado Marra lo accompagnammo al porto di Otranto. Ma erano episodi marginali, che oggi non saprei ricostruire bene.

C’erano altri gruppi, ai quali vi contrapponevate?

No, c’era solo la FGCI. A sinistra non c’erano formazioni collaterali come era collaterale il Circolo “Gabriele D’Annunzio” rispetto all’MSI. Successivamente, nel 1973-74, credo che nell’area socialista Spoti abbia cercato di creare qualche formazione giovanile, ma di poco conto e senza attività politica.

Una volta presa la maturità, nel 1972, sei andato all’Università…

Sì, prima a Bologna e poi a Ferrara, e sono rimasto fuori Galatina fino al 1978. Di fatto, nel 1976 il Circolo “Gabriele D’Annunzio” era finito, proprio perché molti di noi si trasferiscono all’Università. Rimase la struttura, il nome del Circolo, ma l’aggregazione giovanile non c’era più.

In quegli anni hai fatto attività politica?

A Bologna facevo parte di un gruppo che operava nell’ambito ideologico della destra, ma non riusciva a integrarsi con i gruppi della città di Bologna. Il gruppo faceva riferimento al professore Giacinto Auriti, docente di Diritto della navigazione dell’Università di Teramo e di Perugia, deceduto pochi anni fa. Questo professore aveva creato a Perugia un gruppo di estrema destra di cui facevano parte studenti provenienti da tutta l’Italia, soprattutto meridionale. Il gruppo bolognese si chiamava “Alternativa” e faceva capo al Circolo “Ezra Pound”, di cui facevano parte molti galatinesi, molti provenienti dal Circolo “Gabriele D’Annunzio”: Paolo Congedo, Aldo De Martino, i fratelli Zuccalà, Mario e Enrico, Alberto Ferrarese, tutti galatinesi che stavano a Perugia.  Fu fatto anche un giornale su cui scriveva tra gli altri Sante Perissinotto. Alcuni di questi studenti da Perugia si trasferirono a Bologna (per es. Paolo Congedo, che conosceva il prof. Auriti) e crearono una cellula bolognese. Si facevano delle riunioni al Circolo della Stampa, al convento dei Domenicani, avevano un taglio culturale e politico

I tuoi rapporti con Galatina, dunque, si diradano molto negli anni universitari?

Sì, tornavo solo d’estate e durante le vacanze natalizie e pasquali.

Mi racconti la tua esperienza ferrarese?

A Ferrara ho fatto molta attività politica nell’ambiente dell’MSI. Ho conosciuto personalmente Giorgio Almirante, e poi molti rappresentanti dell’MSI di Ferrara, con cui conservo buoni rapporti. Ho frequentato tutto l’ambiente della destra, facevo comizi, partecipavo alle manifestazioni politiche di Ferrara. Un altro gruppo proveniente dall’ “Ezra Pound” di Perugia si era stabilito a Ferrara, queste amicizie portavano all’aggregazione.

E lì che ti sei formato politicamente…

Sì, la mia formazione parte dal “Gabriele D’Annunzio” e prosegue all’Università. In particolare, ricordo l’esperienza nelle Valli di Comacchio, zona ad altissimo tasso comunista, dove facevamo i comizi per i carabinieri – a quei tempi c’era lo slogan Carabinieri sì, polizia no, perché la polizia si andava sindacalizzando e quindi si spostava a sinistra -, lì erano tutti comunisti. Si parlava di Mussolini, che in quella zona aveva fatto le bonifiche. Avevamo una millecento, io andavo insieme a Enrico Brandani, allora unico consigliere comunale del MSI e oggi consigliere provinciale di AN, avevamo un panchetto smontabile, su cui si saliva e con un altoparlante attaccato alla batteria della macchina si parlava a… ai carabinieri, perché il pubblico era inesistente. Una volta c’era un giostra con la musica che ci impediva di fare il comizio, andammo dal maresciallo per lamentarci, ma lui ci disse che era meglio per noi se ce ne andavamo via, perché i comunisti si stavano organizzando per aggredirci. Noi ci mettemmo in macchina, e scappammo, fummo inseguiti, ma riuscimmo a scamparla, arrivammo nella mensa universitaria con le coccarde tricolori al braccio e creammo un po’ di trambusto.

Sei ritornato a Galatina nel 1978. E’ un periodo nel quale era scoppiato, anche a Galatina, il fenomeno della droga. Come si reagì negli ambienti della destra locale alla diffusione della droga tra i giovani?

Io ricordo di essere stato molto duro nei confronti di quanti, vicini e, purtroppo, anche iscritti all’MSI, facevano uso di sostanze stupefacenti. Costoro, secondo me, non avevano alcuna idea politica. Erano simpatizzanti, facevano un certo tipo di attivismo di destra, ma la droga serviva loro perché li faceva sentire più sicuri, si sentivano inebriati dalla droga. Ma non credo, e non ho mai creduto che tra politica e droga ci sia stato qualche rapporto. Anzi ritengo che la frequentazione della destra fosse più un alibi che una vera passione politica.

Non credi che la diffusione della droga sia la conseguenza del fallimento della politica?

Le responsabilità della politica stanno altrove, nel non aver saputo dare stimoli. Io parlo per me. Le occasioni sono state molte – nelle assemblee girava qualche spinello -, ma io e quelli come me pensavamo che qualunque forma di dipendenza fosse segno di debolezza, debolezza dell’animo. E noi disprezzavamo i deboli.

Mi racconti che cosa facesti una volta tornato a Galatina (nel 1978 avevi 26 anni)?

Appena mi sono laureato, ho cominciato subito a lavorare presso lo studio dell’avvocato Nino Lisi. I miei studi erano stati tutti nell’ambito penalistico. Avevo seguito i corsi di Procedura penale del professore Vincenzo Cavallari, uno dei relatori del Codice dell’ ’88, e del professore Ettore Gallo, che poi è stato Presidente della Corte costituzionale. Rifiutai l’invito del professore Gallo di entrare nel suo studio, per tornare a casa, un rifiuto che ancor oggi mi pesa. Quella scelta ha condizionato tutta la mia vita. Devo dire che io ho sempre avuto questa predisposizione a fare l’avvocato, sin dai tempi del ginnasio. Ricordo che quando noi studenti marinavamo la scuola, chi mi voleva trovare, mi veniva a cercare al Tribunale di Lecce in piazza Santo Oronzo – una volta mio padre mi beccò che mi sentivo le cause, ero insieme ad un amico, Alvaro Aloisi -. Ci affascinava vedere i detenuti con le catene, i giudici, gli avvocati, la toga nera ecc.

E il tuo rapporto con la politica galatinese….?

Appena tornato a Galatina non ho fatto attività politica, se non a partire dal 1983-84.

Come spieghi questa interruzione?

Mi avevano molto turbato le vicende del 1977. Un giorno, da Ferrara mi ero recato a Bologna per comprare un libro. Nei pressi dell’Università, dalle parti di Via Zamboni, c’era la Libreria universitaria, dove potevi trovare qualsiasi libro universitario usato. Ero all’oscuro di tutto. Faccio il mio percorso dalla stazione per via Belle Arti, giro per via Zamboni, e davanti a me vedo disteso per terra un militare col mitra puntato contro gli studenti. Erano in corso dei veri e propri moti rivoluzionari, Bologna era in stato d’assedio, e io non ne sapevo niente. All’improvviso mi sono trovato in mezzo ad una battaglia – lo stesso giorno, in via Massarenti 8 – oggi c’è una lapide -, fu ucciso Lorusso, uno studente di Foggia. Tutto questo mi fece pensare, mi pose per così dire un limite. Mi dissi: “Quello che hai fatto finora è andato bene, se fai qualche altra cosa, ecco quello che ti può succedere”. Si vedevano le P38 levate in alto, le chiavi inglesi brandite, gli estremisti di sinistra in assetto di guerra. Di fronte a questo salto di qualità, io mi tirai fuori. Del resto, lo studio universitario mi portò anche a isolarmi dai gruppi più attivi. Fu così che per qualche anno non ho fatto più politica attiva, in piazza, dove si rischiava la vita.

E poi che cosa ti ha spinto a ritornare alla politica?

Fu la mia partecipazione in qualità di avvocato al processo di Piazza Fontana. Nel 1980-81 Nino Lisi viene contattato da Franco Giorgio Freda (Giorgio è il nome di battaglia) per la difesa nel processo di Piazza Fontana – Freda era sposato con una donna di Brindisi, era detenuto a Brindisi ed aveva bisogno di un avvocato in loco -. Questa nomina difensiva Nino volle viverla insieme a me. Nino Lisi era repubblicano. Una volta, a Roma, in una riunione del Partito Repubblicano, fui testimone di un botta e risposta tra Giovanni Spadolini, che allora era Presidente del Consiglio, e Lisi. Spadolini disse: “Lisi, Lisi, difendere i fascisti…”, e Lisi rispose: “Sì, Presidente, ma come avvocato bisogna togliersi anche qualche soddisfazione…”, e voleva dire: “Io faccio anche l’avvocato per scelta professionale, non solo il politico”. Spadolini non ebbe nulla da ridire, perché capì che Lisi non avrebbe permesso che ci fosse un’interferenza politica. In realtà, fino ad allora quel processo aveva avuto, anche nella gestione della difesa, un taglio solo politico. Con Lisi, la difesa divenne “tecnica”. Questo processo, che durò fino all’ ’85, mi coinvolse in modo personale e fu per me un’esperienza professionale importantissima, mi ha formato e mi ha maturato. Freda poi fu assolto. Io conservo con lui ancora oggi ottimi rapporti di amicizia. Ti dirò di più: tra di noi c’è un tacito accordo, che in cambio delle mie prestazioni professionali – tieni conto che in quegli anni andavo a trovarlo anche tre volte la settimana – lui mi manda copia di tutte le pubblicazioni della sua casa editrice, Edizioni di Ar.

In che senso il processo Freda ti ha riavvicinato alla politica?

Freda nel contatto quotidiano ci teneva che i suoi avvocati leggessero i suoi libri e quelli degli autori di destra come Evola, Ezra Pound, ci dava “i compiti a casa”. Bisognava studiare e conoscere bene le idee del proprio assistito. A quel punto, comincio a conoscere bene anche certe vicende politiche italiane, il ruolo di Andreotti, di Cossiga, dei servizi segreti, le trame del PCI che in piazza contestava la DC e sotto sotto “inciuciava” al governo, le compiacenze del PSI e le collusioni con i poteri forti. Comincio a capire che cosa era successo e stava succedendo in Italia. Per farti un esempio, in un’udienza processuale si presentava Izzo, il massacratore del Circeo, che il procuratore generale definiva personaggio di destra affidabile e credibile, a cui Freda avrebbe confessato tutti i segreti della sua vita; ed invece Izzo era solo un delatore, col quale Freda non aveva nulla a che fare.  Il mio riavvicinamento alla politica è avvenuto attraverso questa esperienza. Erano anni in cui la destra era ridotta piuttosto male, non c’era più l’entusiasmo del passato.

Tu eri iscritto al MSI?

No. Io sono stato sempre all’interno del MSI, anche quando stavo a Ferrara, ma non avevo mai la tessera. In quei tempi non ci si etichettava. Ma ci si conosceva bene, magari si aveva un soprannome. Io a Ferrara sono conosciuto come “Giovannino”.

Cos’è, un nome di battaglia?

Sì, un nome di battaglia, come Freda che solo gli “amici” o i familiari chiamano Giorgio, mentre pubblicamente è chiamato Franco. Negli ambienti di destra, la tessera contava ben poco, conta la fede politica che il soprannome testimonia. Giovannino di Ferrara era una garanzia, mentre la tessera di Carlo Gervasi non serviva a niente. In quegli anni c’era una destra oltre la destra.

Quindi tu non ti sei mai iscritto al MSI?

No, mi sono iscritto nell’84-85. Poi, con la svolta di Fiuggi sono passato in Alleanza Nazionale, pur non avendo votato per la fine dell’MSI. Fui uno dei pochi, circa dieci, che si opposero al passaggio in AN, non essendo del tutto convinto della necessità del cambiamento.

Veniamo al presente: come vedi i giovani oggi in rapporto a quelli di una volta, e come vedi la loro condizione oggi?

Sotto certi aspetti sono più preparati e pronti a recepire il nuovo, più svegli di come eravamo noi; ma mi sembrano anche più insicuri e fragili. Noi su certe questioni andavamo coi piedi di piombo, valutavamo bene le situazioni prima di agire, avevamo degli insegnamenti familiari o scolastici che ci spingevano a fare alcune scelte e a rifiutare altre. I giovani di oggi sono più avventati e sbandati. Noi forse eravamo dei sognatori: destra o sinistra, tutti volevamo cambiare il mondo – oggi per loro la tragedia è la fine della ricarica del cellulare, i sogni sono le veline e i soldi in tasca. E’ vero che la mia gioventù politica è vissuta con la violenza come unica forma di “dialogo”, con la degenerazione delle ideologie, ma mi sembra che la caduta delle ideologie abbia portato alla morte delle idee.

Non credo che oggi un gruppo di giovani rifarebbe la muratura dell’ingresso del Liceo, mentre voi…

Non lo farebbero più perché una cosa del genere la troverebbero stupida, mentre per noi era una cosa inebriante. I giovani di oggi non sanno cos’è la goliardia, mentre noi siamo vissuti in un periodo in cui molte cose dovevano essere derise, perché bisognava contestare l’esistente. Noi contestavamo, ridicolizzando certi aspetti del mondo in cui vivevamo, senza spingerci oltre il limite che poteva essere per noi pericoloso, ma al contempo dovevamo sminuire la realtà. Tutto questo ci faceva sentire importanti, al pari della nostra partecipazione politica, a cui ci dedicavamo per intero, ventiquattr’ore su ventiquattro. Oggi i giovani, quelli impegnati, dedicano un’ora alla politica, poi ci sono altre cose, la fidanzata, la discoteca, la palestra, ecc. Io trascuravo un rapporto sentimentale per la politica, perché la politica mi faceva sentire importante.

Se un giorno tu dovessi diventare assessore alle politiche giovanili, che cosa faresti innanzitutto per i giovani? Rispondimi con una battuta.

E’ una domanda difficile. Ti rispondo così: farei qualcosa per i giovani nel campo dello sport, perché credo che nell’ambito sportivo c’è confronto tra le persone, lo sport fa maturare i giovani, li fa crescere nel modo più democratico: c’è un vinto e c’è un vincitore. Lo sport, sebbene sia solo un gioco, contiene sempre un grande insegnamento.

[Gioventù salentina, Edit Santoro, Galatina 2007, pp. 29-63]

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