L’Italia è il Paese europeo con maggiori divergenze regionali ed è anche quello con la maggiore presenza – per numero di residenti – di aree interne (oltre il 20% della popolazione italiana, riguardando circa il 50% dei comuni italiani). Il nostro Paese si è dotato di una strategia nazionale per le aree interne (SNAI) solo in tempi recenti, quando si è reso palese il loro spopolamento, per il combinato delle emigrazioni e della denatalità. La SNAI comincia la sua piena operatività nel 2018, per una sperimentazione che ha riguardato inizialmente 19 aree pilota. L’impoverimento delle aree interne trova la sua causa nell’operare dei meccanismi di polarizzazione spaziale della produzione che hanno caratterizzato il capitalismo fin dalle sue origini e che si sono accentuati nella fase attuale della globalizzazione neo-liberista. In Europa, questi meccanismi seguono un triplo movimento, trainato dai flussi migratori: l’aumento delle divergenze regionali su scala continentale (Baden-Wȕstrember, Catalogna, Lombardia, Rodano-Alpi sono tradizionalmente le regioni trainanti, che fungono da attrattori di manodopera dalle aree periferichee), l’aumento delle divergenze regionali nei singoli Paesi (in Italia più degli altri Paesi dualistici europei) e l’aumento delle divergenze fra città e aree interne. Lo spopolamento è il fenomeno più evidente che riguarda le aree interne e si inscrive nel problema più generale dell’intensificazione dei flussi migratori su scala globale e del calo della fertilità nei Paesi OCSE.
I tassi di fecondità – in questi Paesi – si collocano sistematicamente al di sotto dei due figli per coppia, che è quello che garantisce una variazione costante del saldo demografico. Incidentalmente, occorre sgombrare il campo dall’equivoco che talvolta nasce dal riferimento all’”inverno demografico”, dal momento che la denatalità è un prodotto esclusivamente occidentale, a fronte del fatto che la popolazione mondiale è in continuo aumento. La strategia nazionale per le aree interne, secondo l’ufficio di valutazione del Senato ha prodotto risultati modesti, nonostante le ingenti risorse stanziate. Ciò viene imputato all’eccessivo decentramento per la gestione dei finanziamenti, confermando che, in molti casi, un assetto centralizzato è più efficiente di una forte decentralizzazione istituzionale. Il problema è accentuato dalla carenza di personale, dall’elevata età media dei dipendenti pubblici, dalla carenza di fondi per i piccoli comuni interni del Mezzogiorno. Per le medesime ragioni, vi è il rischio che anche il PNRR non dia esiti apprezzabili per lo sviluppo e la crescita demografica delle aree interne.
La linea politica dominante, infatti, è basata sulla discutibile convinzione per la quale il basso tasso di fecondità dipenda principalmente dalla scarsa dotazione di servizi di welfare: asili nido, in particolare. Non vi è dubbio che le scelte di riproduzione hanno natura multifattoriale e appare, inoltre, inverosimile pensare che la decisione di avere un figlio non dipenda affatto dall’incertezza connessa alla precarizzazione del lavoro e alla frequente mobilità geografica delle giovani coppie. Letto in tal senso, il calo demografico delle aree interne va contrastato soprattutto con misure di potenziamento della base industriale locale, con maggiore regolamentazione del mercato del lavoro, con iniziative di diffusione di informazioni sul patrimonio culturale del quale dispongono – intercettando, in tal modo, il turismo esperienziale – con il potenziamento delle infrastrutture materiali e del sistema dei trasporti e, non da ultimo, con normative che incentivino o impongano la fusione dei comuni (condizione necessaria per realizzare economie di scala, accelerazione dei tempi di decisione, iniziative congiunte di riqualificazione dell’offerta turistica).
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 dicembre 2024 ]