A prescindere dallo sport, rammenti altre esperienze ai tempi del liceo?
Facemmo un’esperienza embrionale giornalistica, io, Dino Valente, Franco Martines, Lino De Matteis, facemmo un giornale in primo, secondo liceo, che si chiamava “Partecipazione”, non più di quattro, cinque numeri. Avevamo una sede in un vicoletto (Vico Topazio?), il nostro covo, dove si realizzava il giornale. Avevamo la pretesa di dire qualcosa, eravamo di destra, di sinistra e di centro, ma accomunati dal desiderio di contestare sempre, tutto e comunque. Si era così ingenui, così candidi! Ognuno manifestava le sue idee, si aveva voglia di partecipare.
Ma non era un periodo dalle forti contrapposizioni ideologiche?
Quelle giunsero dopo, nei primi anni Settanta. Io ti sto parlando di qualche anno prima, il ’66, ’67. Allora si parlava di lotte studentesche, ma non c’erano forti contrapposizioni, si discuteva senza problemi, proponevamo vere e proprie riforme della scuola, con il candore dei nostri sedici anni. Poi si fece anche un’occupazione del Liceo classico, credo nel 1969 o 1970, che si squagliò subito, fu un’occupazione lampo. Gli studenti si erano asserragliati dentro, poi arrivò la polizia, e una studentessa aprì gentilmente la porta, facendo entrare il poliziotto. In quell’occasione realizzammo un manifesto, nel quale un mio compagno – non posso fare il nome – scrisse un “redarre” (per redigere) che ci procurò i rimbrotti del grandissimo Pascalino Barone. Disse: “… e voi sareste studenti di questa scuola?”. Come sapeva sferzarci lui…
Hai fatto solo un percorso nei gruppi giovanili sportivi, oppure ti sei mosso anche in gruppi di altra natura?
Da ragazzo, fino al quinto ginnasio, sono cresciuto insieme a Fernando Panico nell’Azione cattolica, che allora era in fermento, anche lì c’era una sorta di contestazione delle gerarchie. La Chiesa era appena uscita dal Concilio Vaticano II. C’era molta gente che frequentava l’Azione cattolica. Ricordo che c’era don Fedele Lazari. Poi mi allontanai per impegnarmi nel campo sportivo. Nei primi anni Settanta nacque il Circolo “Gabriele D’Annunzio”, anche lì c’era un sacco di gente. La sede era in via Viola. Alcuni di coloro che lo frequentavano sono morti, come per esempio Mario Zuccalà, altri sono fuori, come Aldo De Martino, altri ancora hanno fatto altre scelte. Quelli erano gli anni delle lotte più accese. Io ero all’Università e non li ho vissuti in loco, se non parzialmente.
Dopo il Liceo, hai proseguito gli studi?
Sì, ho proseguito gli studi, mi sono laureato in giurisprudenza a Teramo, ma non ho mai smesso di risiedere a Galatina, continuavo a fare pallavolo perché non avevo l’obbligo di frequenza, e comunque, quando non potevo essere presente, avevo chi degnamente mi sostituiva, il compianto Fernando Panico.
Eri molto amico di Fernando?
Noi ci conosciamo da quando eravamo bambini. Io avevo otto anni e lui ne aveva sei e facevamo i chierichetti con don Vincenzo Frassanito, il preposto ai chierichetti presso la Chiesa madre. Con Fernando si stabilì un’amicizia straordinaria, durata fino alla sua morte, tre anni fa. Come tutte le grandi amicizie, magari è stata incrinata da qualche diverbio, da qualche problema, da modi diversi di vedere le cose, ma poi è rinata più forte di prima, fino a che purtroppo Fernando è scomparso, ma è sempre qui con me, nel ricordo.
Dicevo che gli anni dell’università li ho vissuti così, ritagliandomi i tempi e gli spazi per continuare ad allenare.
Torniamo un po’ indietro. Come hai cominciato la tua carriera?
Io sono stato un autodidatta. Le mie esperienze di gioco sono state limitatissime. Il prof. Palumbo mi diede l’imput, e io mi misi a studiare la pallavolo, prima di cominciare ad allenare (ho cominciato ufficialmente nel 1970). Erano anni terribili per questo sport, la pallavolo era sconosciuta. Allora io e Fernando ci mettemmo a studiare, non avevamo le fonti e dovevamo andarcele a cercare. Ricordo alcune “trasferte” in quel di Lecce, realizzate in due su un Garelli 50 per andare a vedere come si giocava – sembra incredibile -; andavamo dai Vigili del Fuoco, che come obbligo istituzionale allora avevano quello di formare una squadra di pallavolo.
Se ho ben capito, tu sei nato come allenatore?
Sì, io non sono mai stato un giocatore. Sono stato dapprima uno studioso teorico, poi uno studioso pratico, sperimentando su di me le pratiche della pallavolo, e poi da allora cominciò la nostra vicenda…. Il problema è che, pur studiando, non avevi riscontri, non avevi la possibilità di confrontarti con altri, dovemmo inventare la pallavolo. Davvero oggi posso dire che abbiamo contribuito a far diventare grande la pallavolo italiana, attraverso il nostro sudore e il nostro sangue.
Quando nacque la Show boys a Galatina?
La data ufficiale della nascita di una squadra con questo nome è addirittura il 1967. Allora operava a Galatina il Centro Sportivo Italiano (CSI), un ente di promozione sportiva, alla cui guida c’era il prof. Rino Diso, che aveva una sua organizzazione territoriale corrispondente grosso modo ai paesi della Diocesi di Otranto. Si pensò – erano gli anni in cui si tentava di lanciare nuovi sport – di creare una rappresentativa delle squadre del comitato CSI che potesse prendere parte ai tornei federali. Il nome Show boys venne in una saletta dell’Oratorio della Chiesa di Via di Soleto – alcuni poi dissero che era frutto di un errore, ma in realtà il nome inglese è corretto e vuol dire Giovani da spettacolo – e con questa sorta di “nazionale” prendemmo parte al torneo federale.
Sapresti ricordare qualche giocatore di allora?
Ricordo un tal Armando Campanaro di Corigliano d’Otranto, diventato poi arbitro di pallavolo. Ma il nucleo principale era costituito da galatinesi: Totò Ferraro, Pippo Freni, Raffaele Inguscio, Paolo Carrozzo, Sergio Duma. Il torneo si giocò nel campo sportivo, su un campo di pallavolo allestito nei pressi della tribuna – fu la prima manifestazione sul territorio di Galatina, a prescindere dalle partite che si facevano al Villaggio Azzurro, che però non aveva un aggancio col territorio cittadino -. Si giocò con le magliette a canottiera – era il gennaio 1967, e faceva un freddo da morire -. Ti dico questo per farti capire l’assoluto pionierismo che caratterizzo quell’esperienza. Poi intervenne l’evento Giochi della Gioventù (1969). Fu un’esperienza nuova per l’Italia, un progetto lanciato dal CONI, col fine di diffondere tutti gli sport che non fossero il calcio. Quell’anno ci fu un grandissimo coinvolgimento delle scuole e dei Comuni. C’era lo slogan “Lo sport per tutti”. Prima, in effetti, lo sport era molto più elitario. Allora fu lanciata l’idea che lo sport potesse coinvolgere le masse e questo ci portò a fare una grande esperienza di tipo associazionistico. Nacquero gruppi sportivi, scolastici, eccetera. Noi componemmo di nuovo una squadretta Show boys e partecipammo ai Giochi della Gioventù. Fu un’esperienza straordinaria, perché si realizzò una finale provinciale a Galatina. Lungo tutto il perimetro del campo sportivo furono tracciati sessantaquattro campi. Era la finale provinciale, che riguardava la partecipazione di almeno una squadra per ogni comune della provincia. Lì nacque in me l’idea di fare una squadra vera. Mentre prima la Show boys era una squadra raccogliticcia, allora dissi a me stesso: “Voglio creare una squadra, con ragazzi allenati da me”. Avevo diciotto anni e cominciai la mia avventura.
Chi c’era con te, allora?
Molti ragazzi sposarono da pionieri assoluti questo mio progetto, a partire dal settembre 1969: Filippo e Giuseppe De Franchis, Michele Galluccio, Fernando Valente, Massimo Marra, i fratelli Imperiale, Antonio Serra. Pensa che in quegli anni noi avevamo vergogna ad attraversare la villa in tuta da ginnastica. Venivi additato, e noi non ci permettevamo di fare una cosa del genere. Da questo solo fatto puoi capire come il mondo sia cambiato in pochi anni. Quando facemmo il primo campionato nel 1970, ricordo bene le autotassazioni per raggiungere la somma che ci serviva per comprare le magliette e le tute, una somma che non riuscivamo mai a raggiungere. Non c’era uno sponsor e non si trovava. Era facile sentirsi dire: “C’ede sta pallavvolu?”.
Mi dicevi di un risvolto sociale del gioco della pallavolo a Galatina. Quale estrazione avevano i ragazzi che tu allenavi?
Da noi sono passati tutti. Il nucleo iniziale fu di ragazzi che frequentavano l’Istituto tecnico commerciale, però poi la Show boys esplose al Classico a partire dal 1974-75.
Divenne uno sport d’elite?
No, la maggior parte dei giocatori veniva dal Classico, ma nessuno metteva dei paletti o faceva dei distinguo.
E allora come te lo spieghi il fatto che la Show boys sia esplosa al Classico?
Certe cose nascono per caso, nulla di più. Non ci fu una selezione riservata al Classico. Negli anni si organizzarono incontri tra Istituti e si verificò che la maggior parte dei giocatori della Show boys era al Classico, mentre la maggior parte dei giocatori della Vigor (una squadra che era nata come rivale della Show boys) venivano dal Tecnico. Poi ci fu anche un momento in cui molti giocatori della Show boys provenivano dallo Scientifico. Qui conta il passa parola.
Che cosa puoi raccontarmi della Vigor?
Tutto. Nasce nel 1973-74, qualche anno dopo la Show boys. L’anima di quella squadra fu Corrado Panico. Nasce presso la parrocchia di Santa Caterina, nel gruppo scout, col nome di “Mafeking”, poi si chiamò “Pietro Mennea” e poi “Vigor”. Questa squadra seguiva percorsi paralleli rispetto ai nostri, o meglio ci seguiva: noi arrivammo alla A2, loro alla B. Furono anni di grande splendore per la pallavolo: due società, una in B e una in A. Galatina era il fiore all’occhiello della regione per quanto riguarda la pallavolo.
Come spieghi che in una città come Galatina siano nate due società di pallavolo di quel livello?
Allora c’era un forte associazionismo, una fortissima aggregazione sociale. Noi cominciammo, loro, forse per imitazione, forse per puro desiderio di fare pallavolo, crearono un’altra squadra. C’era una grande contrapposizione tra le due squadre, contrapposizione sportiva. La politica non è mai entrata in queste società, ma neanche sfiorandole. Nelle mie squadre non si è mai fatto alcun discorso politico. Io sapevo che tra di noi c’erano fascisti, comunisti e democristiani, ma si stava insieme in maniera del tutto disinvolta. La pallavolo era come un buon piatto di friselle col pomodoro che fa tacere ogni discussione tra un fascista e un comunista.
Poco fa hai fatto un accenno al gioco della pallavolo presso il Villaggio Azzurro. Che cosa mi puoi raccontare in merito?
Poco, perché allora ero proprio un ragazzino. Siamo intorno agli anni 1966-67. Dopo l’esperienza scolastica col mio caro prof. Palumbo, che col Villaggio Azzurro, che io sappia, non aveva alcun rapporto, al Villaggio Azzurro assistetti alle prime partite. Lì c’era il compianto maresciallo Freni, anche lui un pioniere della pallavolo, limitatamente al Villaggio Azzurro. Fece costruire, o costruì lui stesso, un campo di pallavolo all’ingresso del Villaggio, coinvolgendo i ragazzi del luogo. In quegli anni molti abitanti del Villaggio Azzurro venivano da fuori e importavano questo gioco della pallavolo, che da noi era ancora sconosciuto. Rimaneva però un’esperienza limitata al Villaggio, perché non c’era alcun interscambio con la città, nessuna osmosi. Mi pare che i civili avessero dei problemi perfino ad entrare nel Villaggio Azzurro.
Diciamo allora che, per vie diverse -a scuola col prof. Palumbo e al Villaggio Azzurro col maresciallo Freni – la pallavolo si affacciava sulla scena sportiva galatinese?
Esatto. Il tutto alla fine sfociò in questa squadra, la Show boys.
Riprendiamo il filo cronologico. Che cosa avviene dopo il 1969 (Giochi della Gioventù)?
Dal 1970 al 1975 si partecipa spesso ai campionati provinciali della Federazione, ma senza particolari risultati. Il nucleo dei giocatori era sempre quello. Nel frattempo però, si stava creando un certo ricambio. Il gruppo che seguì nel 1975 coincise sul piano dirigenziale con l’aiuto che mi venne dato da due miei vecchi compagni di scuola, Marcello Frassanito e Raffaele Inguscio. Con loro si vinse il primo campionato federale. Allora avvenne un cambiamento nella mentalità. Fino a quel momento si era una squadretta, si giocava senza particolari ambizioni. Questi miei amici portarono un afflato, un’ambizione diversa. Da allora la Show boys cominciò a diventare un fenomeno sportivo-tecnico. Fino ad allora era stato un fenomeno tecnico, ma soprattutto un fenomeno associazionistico.
Ricordi il nome dei giocatori che vinsero il campionato del 1975?
Tonino Giorgetti, Donato Mellone, Carlo Prato, Sandro D’Errico, Saverio Toma, Franco Marra, Daniele Pisano. Era un campionato riservato ai ragazzi fino a sedici anni. Questa era un’altra generazione di giocatori rispetto a quella che ti ho citato prima. Con questi ragazzi vincemmo l’anno dopo il campionato di seconda divisione, passammo in prima divisione e per la prima volta varcammo i confini provinciali. Allora cominciò a costituirsi un nutrito gruppo di amici e di tifosi. Nel frattempo crescevano le nuove leve, Piero Carrieri, Fabio Finizzi, Claudio Tundo, Enrico Antonica, Stefano Rizzelli. Con quest’ultimo gruppo di ragazzi arrivammo fino alla serie C, alcuni di loro rimasero anche in serie B. Purtroppo interveniva l’Università, il novanta per cento di loro, alla fine del Liceo, andava via, a causa della mancanza di molte facoltà sul nostro territorio. Facevamo gli allenamenti prima nell’oratorio di Via di Soleto, all’aperto, come veri pionieri, fino al 1979. Ricordo che fu coniato un detto “Con la pioggia e con il vento la Show boys fa allenamento”. Poi, dopo la costruzione del palazzetto, ci trasferimmo là. Quando sento i ragazzi di oggi che dicono: “Non mi posso allenare perché devo studiare”, io dico: “Non mi fate ridere”. Ricordo Enrico Antonica, era un ragazzo che realizzava delle medie straordinarie a scuola, faceva allenamento, poi tornava a casa e studiava. La sera non si usciva. C’era una grande serietà e disciplina. Erano ragazzi che facevano delle scelte. Oggi i ragazzi sono distratti da tremila cose, fanno di tutto, ma senza l’impegno dei ragazzi di una volta.
Che cosa accadde poi?
La Show boys era diventata un fenomeno di grandi dimensioni, cominciarono ad arrivare allenatori e giocatori da fuori, si fece una vera e propria società, cambiò tutto. Ho allenato fino alla serie B, poi, una volta promossi in A2, ci fu l’esperienza bellissima dal punto di vista tecnico di un allenatore bulgaro, Stojan Stoev. Io ho continuato, ma tornando per così dire indietro, come i gamberi, occupandomi dei settori giovanili fino al 2000. Nel 2000 ho compiuto i trentanni esatti di tesserino federale. Allora ho scoperto la grande gioia dell’agricoltura biologica. Continuo a seguire la pallavolo, do una mano ai giovani allenatori che ci sono adesso. Nel 1997, con alcuni amici, ho fondato un gruppo sportivo nuovo, si chiama Paolo Tundo Volley, dedicato alla memoria di Paolo Tundo che morì in un incidente stradale nel 1975. Siamo in prima divisione, abbiamo una buona attività giovanile, ci divertiamo. Da tempo ho smesso di frequentare la pallavolo di alto bordo, che mi ha dato moltissime soddisfazioni. Nel 1983 sono stato premiato come miglior allenatore di Puglia, a casa ho mille riconoscimenti. Ma ora ho detto basta. Preferisco affacciarmi a un certo tipo di pallavolo, quella modesta. Se mi va, vado a vedere qualche partita di alto livello, a Taranto o a Taviano, ma soprattutto mi piace dedicarmi all’agricoltura biologica.
Dopo la metà degli anni Settanta, a Galatina scoppia il fenomeno della droga. Voi come vi siete rapportati a questo problema?
Non abbiamo preso posizione apertamente, abbiamo preferito la filosofia dell’operare, proponendo concretamente modelli di vita sani. Siamo stati fortunati a non essere sfiorati neppure da un caso. Il nostro stile di vita era diverso.
Ma il fenomeno lo avvertivate oppure no?
Lo avvertivamo per via riflessa. Erano gli anni in cui ci si trovava in villa, e lì non potevamo bendarci gli occhi. Le cose si vedevano. Ma grazie a Dio non abbiamo mai avuto di questi problemi. Abbiamo osservato il fenomeno, che però non ci ha riguardato, lo avvertivamo come fenomeno estraneo a noi.
Non riguardò neppure i tifosi?
No, perché i tifosi erano nostri amici, si muovevano in simbiosi con noi, c’erano molti compagni di scuola. Venivano nelle nostre sedi sociali, una in via Antonio Vallone (dal 1977 al 1981, l’altra in via Roma 46 (negli anni seguenti). Lo sport fu per noi una sorta di vaccino. Per quanto mi sforzi, non ricordo nessuno fra di noi che fece uso di droga.
Ultima domanda: ti va di parlarmi ancora di Fernando Panico?
Eravamo molto amici. Negli anni Novanta era diventato un grandissimo allenatore, gli avevo passato il testimone. Con lui ho fatto tanto. Da ragazzi facevamo lunghissime passeggiate su San Sebastiano, durante le quali conversavamo delle cose più diverse, dei nostri problemi di adolescenti. Mi manca. Negli ultimi anni ci vedevamo la sera in piazza San Pietro. Lui veniva dall’Orologio, dopo l’allenamento, io, che avevo già smesso di allenare, venivo dalla villa. Andavamo a prendere il caffè insieme. Sai quante volte adesso percorro quella strada e mi aspetto di vederlo?
[Gioventù salentina, Edit Santoro, Galatina 2007, pp. 13-28]