L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) di Lecce componeva una delegazione di partigiani, patrioti, collaboratori antinazifascisti, parenti dei Caduti Salentini per la patria, la libertà e la democrazia, più un amico dell’ANPI che ero io. La delegazione era sempre guidata dal partigiano Enzo Sozzo, il leggendario presidente dell’associazione leccese; al suo fianco, il vice presidente Salvatore Sicuro quindi il segretario provinciale Salvatore Fabrizio. Sozzo chiedeva anche la mia presenza, perché, bontà sua, io rappresentavo la generazione successiva a quella dei partigiani. Giacinto Urso, all’epoca presidente della Provincia, ci accoglieva nel salone di rappresentanza. Al suo fianco amava avere Enzo Sozzo e Salvatore Sicuro. Era sempre lui che iniziava a parlare dicendo: «So perché siete qui. Dovete sapere che ho già provveduto a fare la delibera». Poi passava a chiedere a tuti i presenti come stavano in salute. Infine faceva gli auguri di un buon 25 Aprile e ci salutava dando la mano a tutti. La dava anche a me, e mi guardava chiedendosi “ma questo giovane chi è, perché è qui con i partigiani?”. Allora Enzo Sozzo, che per me è stato come un secondo padre, gli spiegava i motivi della mia presenza. Quando era finita la riunione e prendevamo la via del ritorno alla nostra sede di via Coniger, Enzo ci diceva: «quest’anno faremo un buon 25 Aprile. Il presidente è stato veramente generoso». Ed era effettivamente così: tra tutti i presidenti che si sono avvicendati alla presidenza della Provincia, Giacinto Urso rimane quello che più di ogni altro ha dimostrato di essere molto legato ai valori della Resistenza antinazifascista.
Nel 1993, Enzo Sozzo morì e toccò a me cercare di dare sostegno alle attività dell’ANPI. Gli
altri partigiani avevano un’età avanzata ed erano dispersi per l’intera provincia. Nel
raccontare questa storia, ho omesso finora di scrivere che io ero, o meglio mi additavano
come una sorta di “capa in-gloriosa”, nel senso che passavo per essere un irascibile
rivoluzionario extra-parlamentare. Enzo Sozzo, però, mio secondo padre, non si faceva
scrupolo di questa voce diffusasi per la provincia, per cui mi diede sempre credito. Scrivo
questo perché, quando mi trovai davanti al lungo elenco (circa 800, per ognuno dei quali
occorreva confezionare una busta con dentro la tessera e una lettera di benvenuto) di
tesserati all’associazione, cominciai a leggere i nomi degli iscritti e mi accorsi che non pochi erano democristiani o “liberi battenti”. Enzo Sozzo aveva fatto un ottino lavoro di
coinvolgimento.
Data la mia “capa in-gloriosa” di allora, decisi di non confezionare le buste
da inviare a quei democristiani che risultavano essere ai vertici della DC leccese, tra cui l’On. Giacinto Urso (per antonomasia egli è stato sempre considerato un onorevole deputato della Camera). Apriti cielo! Non l’avessi mai fatto. Le lettere con le tessere (un lavoraccio che non vi dico) io le inviavo tra novembre e dicembre. Passò gennaio e arrivò pure febbraio. Cominciarono ad arrivarmi letteracce del tipo: «Ma perché non mi hai inviato la tessera di quest’anno?». «Ma chi sei tu che ti sei permesso di fare questo?», ecc. ecc. Mi arrivò anche la lettera dell’On. Giacinto Urso, il quale non si era dimenticato di quel giovane componente la delegazione dell’ANPI dei 25 Aprile. A differenza delle altre letteracce, la lettera dell’onorevole fu alquanto garbata. Scriveva che era amico del presidente nazionale dell’ANPI, senatore Arrigo Boldrin (Bulow) e che, personalmente, era anche amico di Enzo Sozzo, il quale lo aveva tesserato (ad honorem) alcuni decenni prima. In quella lettera raccomandata, Giacinto aveva messo una banconota di 100mila lire, una somma che neanche il comm. Fiocco aveva mai versato. E poi un’altra particolarità, l’onorevole mi inviava la sua lettera apostrofandomi con «Caro Nocera». Allora era ancora deputato. Mi precipitai a portargli personalmente la tessera ad honorem vergognandomi per quel che avevo fatto. Chiesi scusa, ma il suo volto sereno e le sue parole gonfie di bontà mi fecero capire che mi trovavo davanti ad una persona molto diversa dai soliti democristiani. Gli chiesi se gli potevo inviare tramite posta delle notizie dell’ANPI. Egli però, mi passò il suo bigliettino da visita dicendomi «Puoi venire a trovarmi anche a casa, io abito qui a Lecce».
Fu così che nacque per me una bella amicizia. Io scribacchiavo dei versi, che non ho mai
capito se poetici o altro. Comunque, pubblicandoli, di tanto in tanto, glieli recapitavo o per
via postale o brevi manu. La nostra corrispondenza, al di fuori dell’ANPI, si è andò così
arricchendo sempre più. Sempre sul piano della poesia. Cominciai a chiedergli qualche suo
testo per la rivista «Anxa News», diretta da un suo vecchio amico democristiano come lui,
Luigi Giungato di Gallipoli. Infine, quando cominciai ad avere un po’ più di coraggio, gli
chiesi delle poesie. Mi ero accorto che scriveva versi, ma non li pubblicava. Alla mia richiesta di darmi dei versi, mi rispose «Ma io non sono poeta». Insistetti. Su questo versante la sua timidezza era oceanica. Insistetti ancora. Andai a trovarlo più volte, anche col comune amico Luigi Giungato. Giacinto aveva forse timore di essere scoperto dai suoi “altri amici” come versificatore. Per questo dovevo essere io a dargli quella fiducia che a un vero poeta si deve dare per aprirsi all’aria aperta. La mia esperienza di vicinanza con poeti del calibro di Salvatore Toma, Antonio L. Verri, Claudia Ruggeri, Arrigo Colombo, Giovanni Bernardini, Aldo De Jaco, molti altri ancora, mi spinse ad essere anche un po’ più sopra le righe. Così Giacinto cominciò ad avere fiducia in me. Da una decina d’anni le sue poesie mi sono giunte quando per via postale, quando, ultimamente, anche per via mail. Non aveva il computer, ma affidava le sue missive ad alcune agenzie. Nella primavera scorsa ero andato a trovarlo e gli avevo chiesto una lirica su questo terribile momento che l’umanità sta vivendo. Più di 50 guerre guerreggiate sul pianeta, col pericolo di una guerra mondiale nucleare. Ciò che però lo angosciava di più erano le due guerre più vicine a noi, quella in Ucraina e quella mediorientale. Era tormentato dall’uccisione di tanti bambini nella Striscia di Gaza.
Passarono i mesi. Egli aveva deciso di ritirarsi nella sua Nociglia. Me lo diceva da anni. Non voleva morire a Lecce. Ultimamente, io e Gigi Giungato gli dicevamo «Prepariamoci alla festa dei 100 anni». Sorrideva dolcemente. Poi piegava il capo da un’altra parte. Un giorno, la settimana di Pasqua, arrivò quella poesia che gli avevo chiesto mesi prima. Fu per me un’esplosione di umanità, un cielo che si aprì nell’immensità dell’azzurro infinito. Mi venne da piangere. E piansi. Giacinto, quando ancora neanche il Papa si era accorto di quel che stava accadendo in terra di Palestina, e non si era ancora pronunciato, ha scritto un testo – Genocidio – che resterà fisso nell’orizzonte umanitario di ogni tempo come fissa è la stella polare.
«Quado la prosa diviene insufficiente, resta soltanto la poesia dei non poeti, quale io sono.// GENOCIDIO// Da mesi, nelle terre e sulle rive del Medio Oriente,/ giacciono migliaia di teste mozzate, anche di bimbi./ Ovunque, scorrono rigagnoli di vermiglio sangue/ che si impasta con le aride sabbie, sferzate da/ un sole rovente, che piange lacrime di pietà tradita.// Tanta ferocia si chiama guerra.// Genocidio crudele che non avrà né vincitori né vinti./ Si avranno, soltanto, uccisioni crescenti,/ disumani orrori, vendette antiche e deserti di tombe./ Domani, forse, sarà peggio, quando, persino,/ il giorno sarà cupa notte e più aspra sarà/ la lotta tra fratelli./ Risorgi, o Pace, spenta dal fuoco dei malvagi!/ Lo impone la sequela delle comuni fosse senza nomi./ Ancor di più, lo esige la paura di chi attende/ il suo turno e, pur vivo, si sente già morto/ se la speranza non avrà alba risorta.// Giacinto Urso/ con i suoi quasi 99 anni di età.// 2024. Che la Pasqua continui, sia di Resurrezione, anche domani, e la Pace non sia ammutolita./ È necessario che l’io diventi sempre più Noi per arginare il crescente, minaccioso straripamento dei mali del mondo e per costruire una possente diga di spiritualità eccelsa e di democrazia plenaria./ In sintesi: chiese da ripopolare e urne elettorali pure. Scusate se mi ripeto anche in questo aprile».
Con Gigi Giungato pubblicammo immediatamente su «Anxa News» questa eccelsa poesia,
poi gli telefonammo per complimentarci. Gli chiedemmo di avere pazienza. Che la Signora
in nero poteva pure aspettare ancora un po’. I 100 anni sarebbero arrivati quanto prima. Lo sentimmo lontano, come uomo che serenamente guardava l’orizzonte del tramonto. Ci
salutò come sempre aveva fatto: «Siate sereni e guardate avanti».
Ecco quanto. Quando ieri (14 dicembre 2024) il presidente del Cenacolo poetico “Giuseppe
De Dominicis” di Cavallino, il giornalista Ludovico Malorgio, mi ha telefonato per darmi la
triste notizia, gli ho chiesto se potevamo immediatamente andare a Nociglia. Sì, potevamo
andare. Desideravo ancora una volta salutare il mio vecchio amico Giacinto Urso, poeta tra i poeti. L’ho visto lì, supino nella bara, col volto tendente al sorriso e con nella mano il testo che ha amato oltre ogni altro: la Costituzione Italiana. La commozione è stata forte, ma l’ho nascosta dentro un mio stupido andare avanti e indietro nella stanza della casa di Nociglia che per la prima volta vedevo. Sono rimasto stupito davanti alla modesta stanza che raccoglieva le spoglie del mio amico poeta. Stupito e smarrito. Non c’era alcuna insegna simbolica, nessuna corona o mazzo di fiori. Ho chiesto al nipote spiegazioni: «Ha scritto che sia fatto così come vedete». Mi è venuto in mente Francesco d’Assisi. Anche Francesco era stato un poeta.
Quando una vita se ne va, è sempre il cielo che si apre per accogliere la sua anima. Che il
transito verso i luminosi sentieri dell’incomparabile sia lieve e profumato come è stata la sua vita.
[“Il pensiero meridiano” del 15 dicembre 2024]