Quello dei “treni della felicità” è un pezzo di storia dell’Italia vissuto e narrato attraverso gli occhi dei bambini, tuttavia rimasto, per molto tempo, poco conosciuto. Miriam Mafai, una delle accompagnatrici dei bambini, sostiene che i pezzi di storia della solidarietà, dell’amicizia, del sacrificio “li abbiamo buttati nel dimenticatoio” Perché secondo lei è più difficile ricordare e tramandare storie di solidarietà?
Ventidue anni fa io e Piva volevamo raccontare una storia conosciuta, quella di un conflitto popolare, quella dei braccianti di San Severo. Partendo da quella storia abbiamo scoperto che dalla testimonianza delle persone emergono altre storie che, spesso, i libri non raccontano. Era la storia dei bambini di San Severo. Nel 2002 nessuno ne aveva sentito parlare, non esisteva alcun prodotto, né documentaristico né bibliografico, se non un unico libro scritto nel 1980 intitolato “Cari bambini vi aspettiamo con gioia”, edito da una casa editrice vicina al Partito Comunista, libro poco diffuso, rimasto sconosciuto. È venuta fuori questa storia, successiva ai momenti di violenza, di chi prova a ricostruire qualcosa dalle macerie. E le macerie non sono solo quelle materiali delle case ma sono soprattutto le macerie etiche, emotive, le ferite di guerra più profonde, quelle dell’anima. Questo fenomeno di massa era stato custodito dalla memoria di chi ne era stato protagonista ma non era stato diffuso, perché queste persone non sentivano il bisogno di vantarsene, di tramandarlo: esemplari le parole di Irma Siroi che sostiene che l’UDI non doveva fare propaganda, “lo facevamo perché eravamo puliti dentro”. Oggi è difficile da capire: questi bambini che erano vittime di violenza, vittime della strada e di famiglie sotto-proletarie, sono stati salvati da questi treni. Nei romanzi e nei film spesso si risolve con un espediente sentimentale quello che invece è un problema sociale. Questi bambini non sono stati strappati alle famiglie, alle madri. Sono stati protagonisti di un fenomeno che ha salvato e preservato la loro infanzia. Inizialmente i treni diffondevano il messaggio “salviamo l’infanzia d’Italia”, perché l’infanzia dell’Italia devastata dalla guerra era soggetta a una violenza estrema. Ma non fu tutto il popolo italiano ad aprire le porte di casa a questi bambini ma solo l’Italia più povera, quella dei contadini e degli artigiani. Era la povertà che aiutava la povertà.
Mi ha colpito molto un passo della storia di Vincenzo Maione “Non sento di essere stato bambino, sono sempre stato un uomo, sempre a lavoro”. La storia dei treni della felicità è anche una storia di infanzie restituite?
Maione di Pozzuoli aveva una famiglia talmente disastrata che ha vissuto un’esistenza che doveva essere infantile e invece era schiavo del lavoro. Le donne dell’UDI andavano di casa in casa a convincere le madri, da donna a donna, a dare ai propri figli almeno la possibilità di vivere meglio permettendo loro di salire su quei treni. Maione non aveva mai provato un sentimento, non aveva mai ricevuto una carezza. Arriva in Toscana e scopre che una madre e un padre non sono quello che lui aveva creduto fino a quel momento. Viene accudito: “io l’unica infanzia che ho vissuto l’ho vissuta quei soli tre mesi”. Quando torna a Pozzuoli la madre continua a maltrattarlo. Decide di scappare e diventa, per sopravvivere, venditore di pezze ambulante. Quando io l’ho conosciuto era proprietario di imprese di abbigliamento. Per tutta la vita ha avuto l’obiettivo di ringraziare l’uomo e la donna che in Toscana lo avevano accolto, che lui chiamava “mio padre e mia madre della Toscana”.
Lei scrive di essersi sentito un confessore nell’accogliere i racconti dei testimoni come in un “confessionale virtuale”. Che responsabilità ha avvertito nella diffusione di questa storia?
C’è un coinvolgimento da parte di chi, come me, fa un lavoro storico che prevede la relazione con i testimoni che non è asettico come quello dello storico di archivio. Quando si lavora con le persone in carne ed ossa, si vive la difficoltà di raccontare una storia: alcuni di loro si vergognavano di raccontare quell’esperienza davanti ai propri figli. Poi, invece, c’è Aldo Di Vicino che è stato sostituito dal figlio Gennaro, che ha ricostruito la sua storia e ha ritrovato al suo posto le persone che avevano ospitato suo padre. Dopo la pubblicazione del mio primo libro, “I treni della felicità”, fino alla pubblicazione del secondo nel 2021, sono stato contattato da moltissime persone che volevano ricostruire le loro “storie spezzate”. Io sono entrato nelle famiglie per poter portare a termine un lavoro lungo. Queste persone, questi testimoni, con grande umiltà, alle volte vogliono solo dire grazie a chi li ha ospitati. Questi legami durano per tutta la vita, anche attraverso generazioni. La storia dei treni della felicità è una storia corale e collettiva: nei libri non ho potuto raccontare tutto quello che ho ascoltato, per questo il mio blog http://giorinaldi.com/ contiene decine di altri racconti che completano la ricerca. Ognuna di queste storie merita di essere raccontata.
Manzoni scrive che la storia è fatta, al di là delle imprese dei principi e dei potenti, anche e soprattutto dalle “genti meccaniche”, le genti umili. La vicenda dei treni della felicità sembra confermare questa visione della storia.
È la cosa più bella. La storiografia racconta spesso le figure emergenti della Storia. Questa, invece, è stata una storia talmente di massa che va raccontata dalle persone che l’hanno resa possibile. In primo luogo Teresa Noce che ha fatto partire il primo treno. Tutte le donne dell’UDI, tutte reduci dalla resistenza. Tutti i bambini che sono saliti su quei treni. Dopo tutta quella violenza le famiglie che avevano perso un figlio, un parente, hanno disdegnato la vendetta e hanno scelto la solidarietà. Hanno pensato che fosse giusto sostituire quelle mattanze con la vita. Questa storia ha una ricchezza narrativa che è difficile rendere come individuale, ma può essere solo una storia corale, fanno la loro apparizione quelli che non hanno mai parlato. Il film lo stanno vedendo in tutto il mondo, chiunque lo veda resta a bocca aperta. È una delle storie più grandi avvenute dopo una guerra. Bisogna proseguire, è un racconto corale che ha bisogno di più voci.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” 15 dicembre 2024]