I resti di Babele 11. La consapevolezza del passato contro la civiltà smemorata

Ogni giorno ci si ritrova davanti a qualcosa di nuovo: un oggetto, una parola, una proposta, un prodotto, una teoria, un metodo,  anche un’idea.  Ogni giorno si dismette qualcosa che solo il giorno prima era nuovo. Anche una nuova idea: quella per la quale si era giurato di non smettere di crederci mai.  Forse per capire se il nuovo sia bello o non lo sia, risulta necessario  fare la distinzione tra il profondo e il superficiale.  Non è facile capire quale sia davvero il livello delle nostre competenze rispetto a questo argomento. A volte si ha l’impressione che ci si lasci intontire dalla grancassa battuta dalla banda  dei vecchi e nuovi media di massa, dal vociare dei social, dal cianciare assordante delle chat. Dovremmo imparare a distinguere, a capire. Soprattutto quando  quella che si definisce bellezza riguarda i fatti della cultura, perché quelli sono fatti che determinano la sostanza di una civiltà. Si deve imparare a distinguere, per non farsi sedurre e imbrogliare dal superficiale che ha la sembianza ma non la sostanza della bellezza. La sostanza della bellezza consiste nella capacità che ha un’opera di riprodurre i suoi significati in situazioni sociali e culturali diverse, anche sottraendosi  alle coordinate storiche,  costituendosi come modello di esperienza, metafora, archetipo. Allora, forse si deve imparare a capire quali sono le cose che possono resistere all’infuriare del tempo, all’erosione che fa l’oblio, che in qualche modo configurano il nostro pensiero, il nostro linguaggio, la nostra visione del mondo, che rinnovano il senso della storia. Forse non aveva ragione Gioacchino Rossini. Anche il nuovo può essere bello. A condizione che se ne possa prevedere la durata, e la durata si può prevedere soltanto percependo e indagando la profondità del nuovo, ipotizzando la sua assimilazione nella nostra esperienza, nella nostra conoscenza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, giovedì 12 dicembre 2024]

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