Chi ha detto Svizzera?

Per gli italiani del nord, soprattutto i lombardi, la Svizzera è una tappa obbligata, anche per un semplice week end, data la estrema vicinanza. Abbandonare lo smog delle città e ritemprarsi nella fresca temperatura delle valli alpine è irrinunciabile. Pur essendo un paese altamente industrializzato e un importante snodo finanziario, la Svizzera ci trasmette un’idea di calma e tranquillità. Sarà per la bellezza dei suoi paesaggi, sarà per la sua proverbiale neutralità. Questa neutralità ha permesso alla nazione di restare estranea alle guerre ed ha permesso inoltre che diventasse meta dei rifugiati politici dalle altre nazioni europee. Le sue montagne l’hanno tenuta al riparo dalle invasioni e il popolo svizzero si è caratterizzato come un popolo pacifico, tanto pacifico che Aldo Giovanni e Giacomo, alcuni anni fa, ne fecero una esilarante parodia, nella trasmissione Mai dire goal, puntando sul paradosso, con i personaggi di Rezzonico e Gervasoni, nel cantone dei Grigioni, e del poliziotto Uber che spara agli inermi passanti che calpestano le aiuole o parcheggiano la macchina in divieto di sosta (che ridere!).

La Svizzera per quelli della mia generazione era sinonimo di immigrazione, lavoro, cioccolate, orologi, tutte cose collegate fra loro. L’immigrazione era quella dei nostri genitori e parenti che per mancanza di lavoro nel Meridione d’Italia si spostavano nella confederazione elvetica dove trovavano impiego nelle grandi fabbriche di elettronica o alimentari. Ogni famiglia salentina negli anni Settanta e Ottanta aveva almeno un fratello, un cugino, uno zio, insomma un parente emigrato in Svizzera. Questi lavoratori, che conoscevano la fame e le privazioni, con sacrificio lasciavano tutto e si mettevano in viaggio; giunti in Svizzera si facevano rispettare per il senso del dovere e l’abnegazione. Essi ripagavano con la puntualità e l’impegno il paese che gli aveva offerto una così preziosa opportunità lavorativa. Certo, era triste lasciare la casa, il paesello, la fidanzata, i propri affetti, per trasferirsi in una nazione straniera che non sapevano come li avrebbe accolti. Per loro, Metternich al contrario, la Svizzera era poco più che un’espressione geografica. Si trattava di povera gente, contadini, allevatori, piccoli artigiani, non erano mica abituati a viaggiare, non conoscevano il mondo, il loro orizzonte fino a quel momento era stato angusto: la campagna, il trattore, l’apecar, la gita al mare, la corriera, al massimo il treno. L’aereo (l’apparecchiu, si diceva in dialetto) lo avevano visto solo in foto o in televisione. 

La Svizzera è delimitata ad ovest e ad est dai due importanti laghi di Ginevra e di Costanza, condiviso con la Germania. Ma esistono anche il lago di Neuchatel, il lago dei Quattro Cantoni e nella regione prealpina il lago di Lugano e una piccola parte del Lago Maggiore. I fiumi più importanti sono il Rodano, che nasce sul monte San Gottardo e poi entra in Francia, per sfociare nel Mar Mediterraneo, il Reno che, nato nel cantone dei Grigioni, segna il confine con la Germania, dove prosegue; il fiume Inn che nasce sul monte Bernina ed entra in Austria, dove confluisce nel Danubio, e il fiume Ticino, nell’omonimo cantone, che prosegue in Italia dove si butta nel Po.

“Vincenti, qual è l’ordinamento politico della Svizzera?”, chiedeva il professore in seconda media. “La Svizzera”, rispondevo prontamente, “è una confederazione repubblicana di stati che mantengono ciascuno la propria autonomia amministrativa. Allo stato centrale spettano il potere legislativo, esercitato dal Parlamento, ed il potere esecutivo, esercitato dal Consiglio Federale, cioè il Governo, a capo del quale è il Presidente della Confederazione”. “E qual è la capitale?”. “La capitale della Svizzera è Berna” (che mi faceva pensare ai cartoni di Flo, la piccola Robinson, che proprio da Berna parte con la sua famiglia per il lungo viaggio alla volta dell’Australia). La difesa è competenza dell’autorità centrale ma non si capisce che spese militari possa avere un paese come la Svizzera. Ma se diciamo difesa, il pensiero va subito alle guardie svizzere, che noi conosciamo più che altro come la difesa personale del Papa, ma che hanno una storia ben più articolata che sarebbe impossibile qui sintetizzare.

Chissà lo stato d’animo con cui i nostri parenti si mettevano in viaggio, le ansie, i timori, le speranze. Poi a Natale e d’estate tornavano a casa per le meritate ferie ed era tutta un’altra storia. Le migliorate condizioni economiche, un senso di rivalsa e in fondo l’orgoglio di chi ce l’ha fatta ad affrancarsi da una condizione di svantaggio, forse l’aria buona dei monti e delle valli svizzere, conferivano loro un’espressione mista fra l’altero e il bonario, che non saprei come definire. I salentini elveticizzati diventavano per noi spesso e volentieri oggetto di derisione, persino di dileggio, e nella vulgata erano chiamati “svizzerotti”. Li vedevamo in giro per i nostri paesi, guidare assorti le loro macchine di grossa cilindrata bardate con le tappezzerie più stravaganti, ci trasmettevano la falsa percezione di persone beote (imbecilli e poco lungimiranti erano considerati gli abitanti dell’antica Beozia nella Grecia classica), forse per quell’aria allegra sui loro volti che non cambiava mai. In realtà, le facce apparentemente inespressive di quei campagnoli inurbati nascondevano e dissimulavano un sentimento profondo, un misto di presunzione e risentimento: boria, determinata dal senso di rivalsa per avercela fatta, acrimonia, nei confronti di un Paese ingrato che non li aveva saputi trattenere offrendogli un’occasione, una nazione matrigna che li aveva lasciati andar via. Nei confronti di questa nazione nasceva in loro irrefrenabile una forma di auto-razzismo: “in Italia è uno schifo, va tutto male, vergogna, dovreste imparare dalla Svizzera”. Essi non erano affatto tardi di ingegno, al contrario, vivendo all’estero e facendo esperienza del mondo e della gente, erano diventati più scafati di chi era rimasto qua. E tuttavia gli svizzerotti rimanevano per noi sinonimo di kitsh, cattivo gusto, forse per via delle loro macchine rosse, gialle, melanzana, sempre un po’ più colorate delle nostre, come le loro case, con gli immancabili nani da giardino sul prato e le statue litiche a forma di leone o aquila a sormontare le colonne d’ingresso. Chissà se la loro predilezione per i nani da giardino derivasse dalla passione infantile per la favola di Biancaneve oppure da un inconscio omaggio al loro paese adottivo, dove appunto col termine “gnomi” sono indicati i grandi banchieri i quali, proprio come i nani che nel folto dei boschi custodiscono misteriosi tesori, sono i depositari di enormi ricchezze tenute sotto chiave nei loro blindati istituti di credito. Le banche svizzere hanno creato la loro grande fortuna proprio garantendo ai correntisti il segreto bancario. Ma i nani si vedono ancora oggi in molte case salentine. Esiste anche un fronte di liberazione nani da giardino, un movimento di ispirazione goliardica nato in Francia che ha lo scopo di liberare i nani da giardino dai prati delle case per portarli nei boschi, restituendoli così al loro habitat naturale, nella credenza che in cambio essi libereranno l’anima dei loro salvatori.

Oltre al potere economico delle banche, la principale ricchezza del paese è data dal turismo. La Svizzera gode di un’organizzazione alberghiera fra le più efficienti al mondo. E se non sono organizzati gli svizzeri …!  I trasporti costituiscono uno dei punti di forza e con una freddura si potrebbe dire che i treni e gli aerei sono puntuali come un orologio svizzero. Un paese montuoso, si diceva, da sud a nord. Al confine meridionale con l’Italia, nelle Alpi Pennine, troviamo il Monte Rosa (4634 metri) e il Cervino (4478 metri), il Monte San Bernardo (2469 metri), col Passo del Gran San Bernardo, che mette in comunicazione le due nazioni, il Sempione (2005 metri) con il relativo Passo; quindi nelle Alpi Lepontine, troviamo il monte San Gottardo (2112 metri) con il Passo che collega le due nazioni, e il Passo dello Spluga; procedendo verso est le Alpi Retiche, nelle quali è il Monte Bernina (4052 metri). I monti della Svizzera continuano all’interno con le Alpi Bernesi con i monti Finsteraarhorn (4272 metri) e Jungfrau (4166 metri).

La Svizzera era per noi anche sinonimo di emmenthal e gruyère (il gruviera tanto amato da Topo Gigio), formaggi noti in tutto il mondo. Ed era sinonimo di Lindt. Anch’io da bambino avevo parenti che vivevano e lavoravano in Svizzera. Quando tornavano in estate mi riempivano di cioccolate. Ero un ragazzo paffutello e quel sovrappiù di dolci non faceva bene al mio fisico già provato da lunghe maratone dolciarie. Ma quelli erano i tempi della cioccolata e delle tv private, e allora sotto con Cailler e Lady Oscar, Toblerone e Mazinga zeta. Tutti i paesi salentini furono coinvolti dal fenomeno dell’emigrazione, quale più quale meno. Fra i comuni maggiormente interessati dal fenomeno, era Taurisano, distante poche miglia da Ruffano. I taurisanesi sono stati per decenni tutt’uno con l’emigrazione e quindi con la Svizzera, col Belgio, con la Germania. “Taurisanese” nell’immaginario collettivo in quegli anni faceva rima con emigrante. Tutte le caratteristiche degli svizzerotti sopra descritte erano plasticamente concentrate nel taurisanese tipo. Lunghe basette e baffoni, occhiali affumicati, collane e bracciali d’oro al petto e ai polsi, pupazzetti delle forme più varie appesi allo specchietto retrovisore dell’auto e cani pupazzo semoventi sul pannello posteriore, rivestimenti del cambio, del volante e dell’intero cruscotto in velluto o lana merinos, tendine parasole con disegni di tigri, leoni, serpenti o donne seminude, finestrini rigorosamente abbassati anche a gennaio, volume dello stereo a palla, abiti dai colori sgargianti, corredo di nani portafortuna e amuleti scacciaiella. Il tipo umano testé descritto incarnava perfettamente quella che oggi chiameremmo tamarreide (il tamarro in dialetto salentino è mazzaro o nzallo), ma ai tempi era solo svizzerottaggine o al massimo (o al minimo), taurisanesità. Il maranza o zarro, come dicono a Milano, con la camicia aperta sul petto, le scarpe col tacco alto e la sua vistosa chincaglieria, era entrato nel costume di quegli anni, era divenuto per noi un incontro abituale ma non per questo immune dal sarcasmo. I fendenti indirizzati agli svizzerotti dall’ironia popolare, se da parte dei ragazzi erano armi spuntate, nelle mani degli adulti potevano diventare armi al calor bianco, letali, specie nelle liti famigliari se si trattava di questioni di interessi economici o di eredità. Quando scompariva un genitore e si apriva il testamento, erano dolori. Da parte dei congiunti salentini non si tollerava che il de cuius avesse stabilito parità di trattamento con i famigliari emigrati in Svizzera per cui spesso si impugnavano le volontà testamentarie o si impugnavano i coltelli: “comu, nui ne l’imu sucatu tutta la vita, ha tuccatu cu llu ssistimu finu all’urtimu e ui addhu stivive? Cciti fattu ui pe llu tata? Mo ve ne viniti cazzu cazzu e uliti cu spartimu a metà? Enno! Viti fatti fiacchi i cunti, beddhi mei!”. Spesso, le faide famigliari si protraevano per tutta la vita per cui gli svizzerotti, una volta tornati nel Salento per godersi la pensione, stabilitisi nella casa che negli anni si erano costruita, trascorrevano quel torno di tempo fra il malanimo e il rancore, senza rivolgere la parola ai parenti con cui erano in lite. Che tristezza, a pensarci bene. Decontestualizzati nel paese dopo decenni di trasferta estera, come pesci fuor d’acqua, senza i vecchi amici ormai andati, i figli restati in Svizzera e per giunta in lite coi parenti più prossimi. Ancor peggio se le case erano confinanti. E via ad alzare muri e barriere che potessero impedire anche la vista dell’inviso parentame. Gli svizzeri salentini venivano a sapere della dipartita dei loro odiati dai manifesti funebri o da qualche amico comune ma non osavano presentarsi a casa dello scomparso o della scomparsa nemmeno per l’ultimo saluto. Neppure la morte poteva comporre la lite, nel finto stupore dei compaesani i quali non aspettavano altro che far pettegolezzo e scambiare due chiacchiere malevole con i compari convenuti al funerale: “ma u frate (o a soru) nunn’è binutu allu mortu? None, stiane mari. Naa, e comu ete? Erane fattu parole pe ll’eredità”.

Passati molti anni dacché erano esulati, alternavano nel parlato tedesco e italiano, francese e dialetto salentino, e questa commistione creava un curioso effetto nell’ascoltatore. Transfughi e “civilizzati”, ma pur sempre ruffanesi o casaranesi o tugliesi. Insomma, si è capito, da ragazzo ero affascinato dagli svizzeri salentini, colpito dal loro diverso modo di atteggiarsi rispetto alla gente del posto e anche dall’atmosfera dell’Elvetia, che di riflesso respiravamo noi salentini. Poi sono passati gli anni ed oggi di svizzerotti non si sente quasi più parlare.

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