Avendo escluso di raccogliere “dal vivo” i racconti dei miei amici, ho concordato con loro degli incontri più riservati, nei quali li avrei fatti parlare come se stessimo bevendo un bicchiere di birra ai tavolini del Bar Colonna. Armato di registratore, nei giorni seguenti sarei andato a trovarli o li avrei ospitati a casa mia, per sentire quello che avevano da dire. Il 23 agosto, una mattina, venne a trovarmi Luigi. Conosceva già la mia intenzione, ma gli spiegai ugualmente il progetto che andavo maturando. Gli dissi –cosa che ho poi ripetuto a tutti gli altri intervistati– che mi sarebbe piaciuto ricostruire la storia di una generazione, quella di chi era giovane trent’anni fa, rivissuta attraverso le voci degli adulti di oggi. Avrei voluto che mi parlassero degli ambienti, delle situazioni, delle storie, dei gruppi del mondo giovanile di allora, diciamo pressappoco tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli Ottanta. La società dei giovani non ha mai costituito un unico gruppo, i giovani si sono divisi al loro interno, hanno avuto diversi riferimenti ideologici e culturali, si sono comportati, hanno detto e fatto cose diverse; ciò non toglie che poi abbiano interagito tra di loro, con scambi di varia natura, da quello puramente verbale, ideologico, per esempio nelle assemblee studentesche, allo scambio più concreto, quando talvolta ci si dava le botte. Anche ignorarsi significava comunicare. Avrei chiesto come questi gruppi si strutturassero al loro interno, se avessero dei punti di riferimento nel mondo degli adulti, un personaggio locale come referente più o meno carismatico, oppure semplicemente se si richiamassero a qualche ideale politico o d’altro tipo. E poi ancora i luoghi d’incontro: dove si incontravano i giovani, quali spazi pubblici o privati occupavano, dove si vedevano, dove discutevano, dove elaboravano la loro vita e le loro pratiche individuali e collettive, dove crescevano, di quali spazi usufruivano? L’intervistato avrebbe potuto raccontare dal suo punto di vista di cinquantenne qual è stata la vicenda collettiva di cui ha fatto parte, quale senso ora le attribuisce. E poi ancora avremmo parlato dei rapporti tra la cultura giovanile locale e il mondo extracittadino, poiché appare chiaro che la cultura giovanile locale si è sviluppata attraverso un intenso scambio culturale con la vita universitaria o lavorativa di quanti partivano per studiare e lavorare altrove, e poi ritornavano, portando con sé una messe di esperienze destinate ad avere un peso nella vita cittadina. Ma soprattutto avrei chiesto a ciascun intervistato di raccontare la propria storia individuale nelle connessioni con la vicenda collettiva dei giovani galatinesi e nel rapporto col mondo degli adulti. Vediamo cosa ne verrà fuori, dicevo. Già nel primo incontro con Luigi mi resi conto che l’aura d’incanto dei racconti nati ai tavolini del Bar Colonna, davanti al registratore andava irrimediabilmente perduta. Su richiesta, non si racconta mai bene, tanto meno quando c’è un registratore pronto ad ascoltarti e a rendere pressoché definitive le tue parole. Qualche amico, che le sere d’estate sapeva raccontare così bene, al microfono si rivelò –senza alcuna colpa- un pessimo narratore, altri declinarono l’invito, perché è inutile quando non doloroso rivangare il passato. Ciascuno porta con sé le ferite che la vita gli ha inferto, alcuni le curano coi racconti, altri col silenzio. Io non biasimo nessuno, capisco tutti, e riporto solo le parole dette e approvate da chi è stato al gioco della rimemorazione, anche davanti a un microfono. Se il racconto ha perduto qualcosa della spontaneità originaria, di sicuro ha guadagnato in sistematicità.
Quegli incontri amichevoli, cominciati il 23 agosto, continuarono poi per qualche tempo. La data dell’ultimo incontro, quello con Carlo, è del 31 ottobre 2006. Tutto si esaurì, dunque, nel breve volgere di due mesi. Io ascoltavo, facevo domande, registravo e sbobinavo. Poi, nulla più per un anno e passa. Ho lasciato nel computer i racconti per tutto questo tempo perché non credevo ancora di aver finito il lavoro. Pensavo di dover sentire altri amici, di dover intervistare altre persone, di dover chiedere ancora. Ma poi mi sono reso conto che ogni racconto aveva una sua interna risonanza, particolare, unica e inimitabile, irripetibile, pur partecipando di un’atmosfera collettiva che sarebbe stato inutile reiterare ulteriormente con altre interviste. Il proposito iniziale, e cioè di ricostruire le linee fondamentali di una storia giovanile tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta, aveva subito una necessaria e naturale trasformazione in corso d’opera. In realtà, avevo voluto sentire le storie di alcuni amici più grandi di me, miei fratelli maggiori, per conoscere o riconoscere un mondo che avevo vissuto – a causa delle mia età anagrafica e delle mie vicende personali – solo in parte, ma forse non meno intensamente. Ora so che i miei amici hanno raccontato per me la mia giovinezza e quella di chissà quante altre persone che si riconosceranno nelle loro parole. Ora so che questo lavoro è davvero finito. Esula dai limiti cronologici che mi ero imposto solo il racconto di Massimiliano Martines -che aveva vent’anni nel 1994-, operante nei gruppi giovanili di Galatina tra il 1990 e il 1995. Un periodo nel quale io ero al Nord, per motivi di lavoro. Con le sue parole, Massimiliano, senza saperlo, ha colmato una mia lacuna esistenziale, e lo ringrazio per questo. Allo stesso modo ringrazio tutti gli altri (in ordine di età anagrafica, che faccio valere nella precedenza interna al testo, Francesco Papadia, Carlo Gervasi, Luigi Latino, Roberto Cazzato) per la disponibilità al racconto e a “rivangare il passato”; operazione che non è mai sterile quando col passato si siano fatti i conti per bene. Da questi conti, in definitiva, dipende l’esistenza di ciascuno di noi, di tutta la comunità in cui viviamo e dei giovani d’oggi.
San Martino 2007
[Gioventù salentina, Edit Santoro, Galatina 2008, pp. 7-12]