Siamo, come ognuno comprenderà, all’interno di quel modo di intendere la società e la vita che definiamo “politicamente corretto”, calco-traduzione dell’anglo-americano politically correct, che definisce un atteggiamento di rispetto nei riguardi delle minoranze e dei gruppi socialmente deboli (ad esempio: «Carlo parla in modo politicamente corretto, non usa mai termini offensivi nei confronti degli omosessuali»). Oltre che aggettivo (come nell’esempio precedente) può essere anche sostantivo (ad esempio: «il politicamente corretto è il movimento, nato negli Stati Uniti d’America, che rivendica il rispetto delle minoranze e una maggiore giustizia sociale anche attraverso la lingua»). Il forestierismo politically correct non ha soppiantato la derivata locuzione italiana. Le due espressioni, italiana e inglese coesistono nella nostra lingua, e designano in chiave polemica un’attitudine sacrosanta, che si oppone a visioni intolleranti e retrograde.
Rientrano nell’uso politicamente corretto del linguaggio atteggiamenti che portano a evitare forme che, anche al di là delle intenzioni esplicite, potrebbero evocare discriminazione nei confronti di minoranze etniche, religiose o sessuali (come “negro”, “giudeo”, “invertito”) o di categorie con svantaggio fisico (ad esempio “handicappato”, “cieco”, “nano”, “grasso”) o di professioni che vengono percepite come collocate ai livelli bassi della scala sociale (“spazzino”, “becchino”, “bidello”). In tutti questi casi, in varie forme e con soluzioni variabili, si possono usare espressioni che appaiono più neutre e non connotate in senso negativo. Se consideriamo le cose in questa prospettiva, alle parole precedenti potremmo sostituire “nero”, “israelita”, “omosessuale”, “diversamente abile”, “non vedente”, “di bassa statura”, “sovrappeso”, “netturbino”, “necroforo”, “ausiliario”.
Le intenzioni sono legittime e ammirevoli ma i comportamenti a volte sfuggono di mano; sono gli eccessi della cancel culture (alla lettera ‘cultura che cancella’) che vorrebbe cancellare i segni e i protagonisti del passato negandone persino il ricordo, sulla base di valori e principi del presente. Colpiscono le notizie sull’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo e di altri personaggi della storia (tutti etichettati come razzisti, senza sottigliezze); sul boicottaggio di romanzi come «Le avventure di Huckleberry Finn» di Mark Twain (che Ernest Hemingway collocava all’inizio della letteratura americana moderna) perché vi ricorre la parola “negro” e descrive senza prenderne le distanze l’atroce schiavismo; sull’annullamento del nome «Eschimese» (gli eschimesi visti come gli indiani di cui abbiamo parlato all’inizio) con cui la Nasa aveva etichettato una nebulosa (ora si chiama NGC 2392) .
Una «Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto» pubblicata su «Harper’s Magazine» da 150 famosi intellettuali lanciava già alcuni anni fa un grido d’allarme: il sacrosanto obiettivo della giustizia sociale e razziale non può avvenire cancellando la storia e, nel presente, a scapito della libertà d’opinione. Tutte le opinioni, anche quelle più controverse, perfino quelle che giudichiamo non condivisibili, antitetiche rispetto a quello in cui profondamente crediamo, hanno il diritto di potersi esprimere. È un portato della civiltà illuministica su cui l’Occidente ha fondato i propri ideali.
Qui le cose si complicano. Come comportarci di fronte al riaffiorare, oggi purtroppo frequente, di scritti e di parole che provengono da un passato odioso e implicano fascismo e razzismo? Vale anche in questo caso il diritto universale di opinione, pur se quelle frasi e manifestazioni urtano la coscienza democratica? È difficile decidere. A condizione che quanto troppo spesso vediamo succedere ai nostri giorni resti evocazione (nostalgica) di un passato definitivamente tramontato e non aspiri a diventare incubo del presente,
Conoscere i flussi della storia aiuta. Non possiamo cancellare il passato, ma dobbiamo analizzarlo per evitare di ripeterne gli errori. Le aberrazioni finiranno quando dalla nostra società spariranno violenza e discriminazione. L’uso accorto della lingua contribuisce ad affrontare i problemi della società.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 13 dicembre 2024]